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di Massimo Nava

Corriere della Sera, 6 aprile 2024

Ma il Paese guidato da Kagame è tra i più vivaci del Continente. Per uno di quei paradossi della Storia, è accaduto che la tragedia di un popolo, inimmaginabile per dimensione e atrocità, abbia prodotto, a distanza di una generazione, una società progredita, ordinata, soprattutto pacifica. Parlando di Africa, addirittura un modello. È la storia del Ruanda, trent’anni dopo il genocidio nel dolcissimo scenario del Paese delle Mille Colline, un milione di esseri umani trucidati in una primavera. La corrente del fiume Kagera, fino al confine con l’Uganda, trascinava migliaia di corpi. Mucchi di cadaveri erano sparsi davanti alle chiese, sulle piazze polverose dei villaggi, lungo le strade. Non ci fu pietà nemmeno per i bambini. Si scorgevano ossa e muscoli dilaniati da granate lanciate dentro improvvisati campi di sterminio. Camion e bulldozer preparavano gigantesche fosse comuni.

Le responsabilità - Ma la macchina di morte più efficace continuò ad essere il machete. E centinaia di migliaia morirono nei mesi e negli anni successivi portati via da epidemie, vendette e guerre di conquista nel cuore dell’Africa più affascinante, la regione dei Grandi Laghi, dal Ruanda alla Repubblica Democratica del Congo. Dopo Auschwitz il concetto di genocidio era tornato d’attualità, ma quello del Ruanda fu di una specie diversa per il tempo brevissimo in cui fu attuato e per il vergognoso intreccio di responsabilità internazionali, soprattutto francesi, ormai accertate dopo indagini parlamentari e archivi scoperchiati. Il presidente Mitterrand lanciò l’operazione Turquise, con l’intento di arrestare la guerra civile. Nei fatti, i francesi continuarono a proteggere gli hutu, l’etnia e il regime che per anni avevano armato e finanziato.

Il Ruanda evidenziò anche il fallimento delle Nazioni Unite, incapaci, ieri come oggi, di prevenire conflitti. “Non sono riuscito a convincere il Consiglio di sicurezza”, ammise il segretario generale dell’epoca, Boutros-Ghali. Il generale canadese Romeo Dallaire, che comandava un esiguo contingente di caschi blu disse: “L’Onu era sotto il giogo di Stati Uniti e Francia che hanno fatto di tutto per ostacolare la missione e hanno finito per favorire il genocidio”.

L’orrore cominciò fra il 6 e il 7 aprile del 1994, quando l’aereo del presidente hutu, Habyarimana, fu abbattuto da un missile in fase di atterraggio all’aeroporto di Kigali. Il presidente era di ritorno dalla conferenza di pace in Tanzania, convocata per trovare un accordo fra fazioni etniche e politiche: la maggioranza hutu, al potere, e la minoranza tutsi, esclusa dalla vita sociale e decimata da massacri ed esodi dal tempo dell’indipendenza del Paese dal Belgio. Il conflitto fra hutu e tutsi proseguiva, a parti invertite, nel vicino Burundi e l’instabilità della regione dei Grandi Laghi si sarebbe poi allargata al vicino Congo.

L’abbattimento dell’aereo fu la scintilla di uno sterminio che si preparava da tempo, nutrito dalla propaganda e messo in atto dagli squadroni della morte armati dal regime. Il cuore dell’Africa, fra distese di eucalipto e campi da tè, diventò un deserto silente, da cui erano scomparsi gli esseri umani. La bellezza dello scenario rendeva ancora più inconcepibile la tragedia. Alcuni si suicidarono, per non aspettare la fine, e uccisero mogli e figli, per non lasciarli in balia dei carnefici. Anche la Chiesa fu vittima, ostaggio e causa di orrende vendette. Diversi sacerdoti e l’arcivescovo di Kigali furono uccisi. Alcuni religiosi parteciparono ai massacri e furono poi condannati.

L’avanzata - Nel caos di quei giorni, cominciò anche la marcia dei tutsi espatriati verso la conquista del potere. Dal vicino Uganda, il colonnello Paul Kagame, alla testa di migliaia di guerriglieri del Fronte nazionale, condusse una spettacolare offensiva fino alla capitale, Kigali. Dopo la conquista, i guerriglieri si facevano fotografare nella camera da letto in cui il presidente assassinato aveva dormito per 17 anni. Gli “inkotany”, gli arditi, cantavano le canzoni degli esiliati ruandesi. L’avanzata di Kagame avrebbe poi prodotto vendette e processi sommari contro gli hutu sconfitti. Più di un milione fuggirono verso il Congo. Decine di migliaia vennero ammassati nelle prigioni. La giustizia di improvvisati tribunali distribuì qualche centinaio di condanne a morte. Quella popolare, nei villaggi, fece il resto.

Pur essendo accertate le responsabilità della Francia, va tuttavia ricordata l’inchiesta condotta dal giudice Jean-Louis Bruguire, famoso per indagini sul terrorismo, che accusò Paul Kagame per l’abbattimento dell’aereo del presidente hutu, secondo un piano concepito appunto per scatenare la guerra di conquista. Un’accusa tremenda che allargava anche ai tutsi le responsabilità del conflitto. Tutsi e hutu non erano soltanto due tribù accecate dall’odio razziale. Il genocidio fu anche l’epilogo di uno scontro politico fra classi sociali e militari composte da entrambe le etnie.

Laboratorio africano - Kagame promise giustizia, riconciliazione e anche democrazia, da presidente eletto con maggioranze plebiscitarie che si sono riprodotte fino ad oggi. Il Ruanda è oggi pacificato e progredito, grazie anche alla mole di aiuti internazionali, ma quello del colonnello vittorioso resta un regime autoritario. È un curioso caso da laboratorio africano: un regime consolidato dalla memoria dei massacri che sconsiglia agitazioni sociali; illuminato quanto basta da utilizzare bene investimenti e aiuti; spregiudicato fino al punto da gestire a pagamento flussi di migranti da Danimarca e Gran Bretagna.

Il Paese a forma di cuore sta diventando anche il gendarme dell’Africa, una piccola Prussia, impegnata in missioni di interposizione e in aggressive operazioni nella vicina Repubblica Democratica del Congo, a sostegno dei ribelli del movimento M23. La posta in gioco sono le immense ricchezze minerarie di questo Paese. È lo sconvolgente paradosso del genocidio: fatti i processi, compiute vendette e rivalse, il Ruanda è una delle economie più dinamiche dell’Africa. L’aspettativa di vita è aumentata da 50 a 69 anni. Il numero di famiglie che accedono all’elettricità è passato dal 10% del 2010 al 75,3% dell’ottobre 2022. Circa l’87% degli adulti ruandesi (6,2 milioni) ha accesso a un telefono cellulare. Per tutti i sopravvissuti e per le nuove generazioni continua il lavoro della memoria, che consolida la riconciliazione e resta un monito per i posteri.