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di Anna Zafesova

La Stampa, 29 marzo 2022

Dopo 29 anni e otto collaboratori uccisi, si ferma l’ultimo giornale di opposizione. Il direttore premio Nobel per la pace: “Non abbiamo altra scelta”.

La morte definitiva della libertà di stampa in Russia, annunciata tante volte, è stata certificata a mezzogiorno di ieri, ora di Mosca, quando la Novaya Gazeta ha annunciato di sospendere la pubblicazione. “Abbiamo ricevuto un altro ammonimento dal Comitato russo per la vigilanza (Roskomnadzor). Di conseguenza sospendiamo la pubblicazione sul sito, nei social network e su carta, fino alla conclusione della “operazione militare speciale” in Ucraina. Con rispetto, la redazione”. Poche righe di necrologio, per chiudere una delle pagine più ricche e tragiche del giornalismo libero in Russia, una testata che ha raccontato ventinove anni di storia russa.

Migliaia di articoli, centinaia di inchieste e reportage, scritti anche con il sangue di otto giornalisti e collaboratori uccisi, una costellazione di firme di prima grandezza tra cui la più celebre resta quella di Anna Politkovskaya, la prima martire di quella “Russia di Putin” alla quale aveva dedicato il suo libro più famoso. Un giornale nato nel 1993 grazie ai soldi del premio Nobel di Mikhail Gorbaciov, l’uomo che aveva dato inizio alla demolizione del totalitarismo sovietico aprendo alla libertà di stampa, che decide di autocensurarsi, e se ne va spegnendo la luce su quella che da ieri è definitivamente una dittatura militare.

Il Nobel per la pace, vinto dal direttore Dmitry Muratov appena sei mesi fa, è riuscito a proteggere la Novaya Gazeta un po’ più a lungo delle altre testate, schiacciate già due settimane fa. Il giornale di opposizione più celebre della Russia è durato 34 giorni di guerra, “i più tragici della nostra storia”, scrive Muratov in una mail inviata ad amici e sostenitori. Mentre il governo chiudeva uno dopo l’altro siti, giornali, televisioni e radio, il team della Novaya ha deciso di proseguire a lavorare, seppure sotto censura: il 96% dei lettori ha votato per non sospendere la pubblicazione.

Il giornale è uscito con copertine censurate e ha accettato di non scrivere la parola “guerra”, per la quale in Russia si viene puniti oggi in base all’articolo sul “discredito delle forze armate”. Gli articoli avevano assunto una forma surreale, per esempio, “le conseguenze di (parola proibita dal governo) saranno pesanti”. I giornalisti avevano cercato di non pubblicare notizie dal fronte. Muratov aveva addirittura deciso di non partecipare personalmente alla videointervista che Volodymyr Zelensky aveva concesso a quattro giornalisti di opposizione russi. Si era limitato a trasmettere una domanda.

È stato sufficiente: ieri il Roskomnadzor ha ammonito il giornale, per la seconda volta in un anno, per un errore formale, l’aver omesso la dicitura obbligatoria “agente straniero” accanto al nome di una delle Ong o testate già finite nelle liste di proscrizione del Cremlino. Due ammonimenti, secondo la legge russa, rendono possibile la revoca della licenza di un media. Muratov ha preferito non aspettare: “Non abbiamo altra scelta”, ha spiegato. Forse, voleva evitare ai suoi colleghi un’incriminazione formale. Forse, aveva ricevuto dal Cremlino - continuava ad avere ottimi contatti in alcune delle sue stanze - un avvertimento che non si poteva ignorare. “Una decisione terribile e difficile, ma l’importante è conservarci incolumi”.

È la fine di tre decenni gloriosi. I reportage dal fronte ceceno che avevano trasformato Anna Politkovskaya nella principale teste di accusa dei crimini dei militari russi contro i civili. Le indagini sulla corruzione di oligarchi e ministri, di Eltsin e di Putin. Le denunce di torture della polizia. Le inchieste sui nazionalisti estremisti e le loro complicità altolocate. La rivelazione della persecuzione dei gay in Cecenia. La verità sulla catastrofe del Covid in Russia. Infine, negli ultimi giorni, gli strazianti e crudeli reportage di Elena Kostiuchenko, forse la vera erede di Politkovskaya, dalle città ucraine bombardate dall’esercito russo. E poi i migliori critici televisivi e cinematografici, gli opinionisti più graffianti, i letterati più famosi e irriverenti: tutto questo oggi appartiene al passato. Il direttore promette ai lettori “un nuovo incontro”, e torna a chiamare la “parola proibita dal governo” con il suo nome: “Come è possibile che il nostro popolo abbia potuto permettere di aprire ben due guerre, quella di occupazione in Ucraina e quella quasi civile in Russia”. Una domanda sulla quale in Russia non è più lecito interrogarsi.