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di Rosalba Castelletti

La Repubblica, 20 giugno 2022

Intervista all’attivista 76enne, pittrice ed ex insegnante. La chiamano la “coscienza di San Pietroburgo”, ma quest’etichetta proprio non le piace. “La coscienza serve solo a essere nascosta. E molto spesso viene usata a sproposito”. Eppure a resistere contro la “follia” dell’operazione militare speciale in Ucraina, di un “orribile” scontro fratricida, c’è rimasta quasi solo lei.

Elena Osipova, pittrice ed ex insegnante d’arte, scende in strada da vent’anni con i suoi drammatici poster, tutti disegnati da lei, nonostante gli acciacchi dei suoi 76 anni, i fermi della polizia e le provocazioni dei cosiddetti titushki. Milano le ha conferito la cittadinanza ordinaria. “E qui in Russia non vengo neppure nominata”, dice mentre ci versa acqua calda da una teiera - “la uso anche come microonde” - e ci offre un prjanik, un panforte.

“L’ho preso al forno qui sotto”, sorride facendo un cenno oltre la finestra, da dove arriva l’odore del pane caldo, al primo piano di un appartamento che condivide con una coppia più giovane e un gatto che ogni tanto fa capolino. Una communalka dove vivevano i suoi nonni materni - un incisore e una guardia del museo dell’Arte russa - e sua madre.

“Mio nonno è morto durante l’assedio di Leningrado. Allora pativano tutti la fame. E io sono figlia della Grande Guerra Patriottica. I miei, un medico e un’infermiera, si sono conosciuti sul fronte. Mio padre non l’ho mai conosciuto. Quando avevo nove mesi è partito per la guerra in Giappone ed è morto lì”.

Osipova sgrana gli occhi chiari mentre mette in fila i pensieri come in un flusso di coscienza o ci mostra una tela dopo l’altra. Strade di San Pietroburgo, un meleto, una pianta di sorbo, i ritratti del figlio Ivan morto di tubercolosi nel 2009 a 28 anni o della nipote (“Mi ha salvato, vivo per lei”). E i poster contro il conflitto in Ucraina. “Ma molti poster non li ho più, me li hanno strappati di mano i titushki o sequestrati i poliziotti. Un olandese mi aveva portato un mazzo di tulipani rossi, ma quando li ho messi nel vaso si sono afflosciati. Mi ricordavano i giovani russi e ucraini caduti al fronte senza motivo e li ho disegnati accompagnati da alcune parole parafrasate del cantante Aleksandr Vertinskij. “Chi li ha mandati a morire? Lui li ha mandati a morire e li ha immersi nell’eterno oblio”. Era un poster molto bello, ma me lo hanno stracciato”.

Che cosa le dà la forza di continuare a manifestare?

“Volevo smettere, ma la gente ne ha bisogno. Ci sono tante persone buone. Cercano speranza. Hanno bisogno di vedere che c’è gente che la pensa come loro. Hanno bisogno di non sentirsi sole. E ne ho bisogno anch’io. Ecco perché continuo a scendere in piazza. Lo faccio soprattutto per i giovani. Pensavamo che almeno la loro generazione non avrebbe vissuto l’orrore di una guerra e invece ora c’è anche la minaccia nucleare. Tanti hanno paura di far figli perché temono il futuro. Anche se quando è iniziato questo conflitto non ci credevo nemmeno”.

A che cosa?

“Non riuscivo a credere che così tanta gente potesse sostenere quest’operazione militare. Sono scesa in piazza per capire se fosse vero e ho incrociato giovani che correvano su e giù per Prospettiva Nevskij. L’unica cosa che potevano fare era gridare: “No alla guerra”. Ora non si può fare più neppure quello. Io ero lì con un mio vecchio poster: una mummia, i corvi con il becco insanguinato e un verso di Marina Cvetaeva. Solo che lei parlava di Germania e io ho sostituito la parola “Germania” con “Russia”. Non posso mostrarglielo perché è in mostra a Praga. Lì possono vedere i miei dipinti, qui invece nessuno vuole saperne niente... Era un poster del 2014. Era già tutto previsto”.

Già allora si aspettava che si potesse arrivare a questo punto?

“No, come nessun altro. Ma ricordo che già nel 2014 c’erano gli ideologi del Russkij Mir, del Mondo Russo, e quelli che si vantavano di essere andati nel Donbass e di avere ucciso. E la colpa principale è la loro. Sono l’intelligentsija del Paese e invece usano la loro influenza per istallare odio. Ai nostri dicono che vanno a combattere il nazismo in Ucraina, invece solo loro a compiere azioni fasciste e ad attribuirle agli ucraini. Sono provocazioni orribilii. Ma questo modo di pensare imperiale non è una novità in Russia”.

Da quando è iniziata l’operazione militare speciale, quante volte è scesa in piazza?

“Innumerevoli. Ho disegnato un poster con un soldato con gli occhi bendati accanto alle croci di tombe senza nome. La madre gli toglie l’arma dicendo: ‘Non andare a fare questa guerra’. E poi ho aggiunto lo slogan: ‘Non sparare ai tuoi fratelli, butta le armi. E sarai un eroe’. Perché oggi è un atto di eroismo, non eseguire gli ordini criminali. Tra i giovani c’è chi si è rifiutato di andare a sparare ed è stato licenziato. Ma altri fanno quello che gli viene ordinato. Arrivano da tutte le parti dalla Russia. Sono giovanissimi, spesso poco scolarizzati. Dopo il poster coi tulipani, ne ho disegnato un altro rotondo come la Terra, due madri da due Paesi diversi che tengono i loro neonati in braccio e il simbolo pacifista, questo (mostra un ciondolo al collo, ndr). Il 9 maggio, Giornata della Vittoria, i titushki mi hanno circondata e portato via i miei due dipinti. È stata molto dura, ma ho trovato la forza di tornare a casa, cercare un altro poster e andare in strada per dire la mia a proposito di questa “Vittoria”. Perché non è una festa, è una giornata di lutto, un’occasione per commemorare i caduti.

Nel mio vecchio dipinto avevo scritto ‘Non vogliamo il paradiso di Putin, perché questa è la guerra’ e disegnato degli angeli con le maschere antigas. E poi ce n’era un altro, diverso, più tenero: un angelo bambino che chiede ‘Che mondo volete lasciare ai vostri bambini?’. Ma dal momento che me l’hanno portato via, ho disegnato quest’altro per l’1 giugno, Giornata per la difesa dei bambini: un extraterrestre che parla a tutto il pianeta Terra e chiede: ‘Voi gente della terra, quando ucciderete tutti i miei nemici, rimarranno solo gli assassini’. Su Internet gira uno scambio di battute: ‘Papà quando uccideremo tutti i nemici chi resterà? Quelli che hanno ucciso’. È quello che accade. Questi ragazzi diventano assassini. Lo fanno perché sono costretti a difendersi, ma uccidere ti cambia, ti resta dentro. La Russia ha già subito tante prove del genere. Ai tempi di Stalin, sparavano alla nuca qui vicino dove c’è la sede del Kgb. La gente si ricorda come da lì scorresse il sangue fino al fiume Neva. Ma ora è proibito parlarne, ricordare. Il Paese è militarizzato. È tutto diverso”.

Perché?

“Ci si uccide tra popoli fratelli. E come se non bastasse si iniziano a minacciare anche altri Paesi. I Baltici, la Finlandia. Ascoltavo radio ‘Eco di Mosca’, ora sulle sue frequenze c’è ‘Radio Sputnik’. E tutto questo fa paura. E tanti russi credono che sia tutto inutile, che contro questa follia non si possa lottare e perciò vanno via”.

È per questo che oramai non protesta quasi più nessuno?

“Quelli che si consideravano opposizione li hanno messi dentro. Alcuni giovani compiono azioni dimostrative coraggiose. Una ragazza è scesa in strada con un abito bianco macchiato di sangue, un’altra ha cambiato i cartellini dei prezzi di un negozio con messaggi sull’Ucraina, ma è stata segnalata alla polizia e ora è in carcere. C’è gente che è stata licenziata perché sul suo profilo social aveva pubblicato la bandiera ucraina. Una mia amica è senza lavoro da due mesi. Se sei contro il governo, corri ancora più rischi. Ecco perché tanti altri hanno paura di manifestare. Mentre tenevo un picchetto davanti alla cattedrale di Kazan, una donna con un passeggino si è avvicinata e mi ha detto: ‘Vorrei manifestare anch’io, ma ho paura. Ho paura per il mio bambino’“.

Lei invece scende in piazza da vent’anni...

“La prima volta fu nel 2002 dopo l’assedio del teatro Dubrovka. Non potevo tacere. È stato solo l’inizio. Poi c’è stata la tragedia di Beslan, l’uccisione di Anna Politkovskaja...”.

In questi vent’anni la Russia è cambiata tanto?

“Certamente, ma il problema è che non se ne parla. Perché hanno approvato leggi sempre più repressive per vietarti di dire la tua”.

Il ventennio di Putin peggiore dei tempi sovietici?

“Sotto l’Urss uno dei simboli più frequenti era la colomba della pace. Adesso i bambini vanno in giro con il berretto militare di Pionieri. Certo, anche sotto l’Urss c’è stata la guerra in Afghanistan che ha provocato morti, mutilati e tossicodipendenti”.

Che cosa spera per il futuro della Russia?

“Non credo di vivere ancora a lungo. Oggi ho paura. Certe volte quasi invidio chi è morto di Covid. Ma spero che quelli che sono andati via ritornino con un esercito buono che ci venga a liberare per cambiare tutto velocemente...”.

Un esercito buono? Non crede che il cambiamento possa arrivare da dentro?

“Tutti quelli che potevano davvero fare qualcosa, sono andati via. Ci sono già stati tanti morti. Se le tragedie di Dubrovka e Beslan fossero successe in un altro Paese, lì sarebbe già cambiato il governo. Qui invece al potere sono sempre gli stessi. E il loro mestiere è uccidere”.