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di Ezio Mauro

La Repubblica, 19 febbraio 2024

Cancellare l’oppositore numero 1 per Putin significa annullare l’obiezione democratica, l’insidia di una critica radicale e permanente che sfida il potere, costringendolo a rivelarsi. La dittatura vive nel presente e non è capace di immaginare il futuro, perché le fa paura. Vladimir Putin non ha saputo prevedere che la morte in carcere di Aleksej Navalny lega per sempre il nome dell’imperatore e quello del suo oppositore, come se una persecuzione morale, disarmata ma inesorabile, ribaltasse la persecuzione fisica del regime durata anni contro il nemico pubblico numero 1. La logica difensiva e apprensiva del sovrano suggeriva soltanto soluzioni primitive, purché definitive: cancellare Navalny per il Cremlino significava cancellare non soltanto un’opzione concorrente, sia pure sproporzionata, ma annullare l’obiezione democratica, l’insidia di una critica radicale e permanente che sfida il potere, costringendolo a rivelarsi.

La mancanza di pietà oggi fa mancare la trasparenza anche davanti al cadavere, celato alla famiglia, e autorizza i sospetti. Ma non è necessario pensare a un omicidio politico infine riuscito, dopo il tè avvelenato e l’agente nervino Novichok sparso sugli indumenti del grande avversario, umiliando i servizi segreti comandati a rovistare nelle mutande. Anche se la spiegazione di Stato sulle cause e sulle modalità del decesso fosse veritiera, e la fine risultasse determinata da un estremo logoramento organico del prigioniero, non cambierebbe il significato profondo di quanto è accaduto in Russia.

Estromesso dalla competizione elettorale, escluso dal sistema politico, denunciato come un criminale, privato del diritto di parola, mutilato di qualsiasi prospettiva con trent’anni di condanne da scontare, Navalny è stato prima isolato, poi annientato: e soprattutto mandato a morire. Perché un punto dev’essere chiaro all’opinione pubblica europea, com’è chiarissimo in Russia per le migliaia di persone capaci di sfidare le polizie attraversando le piazze per deporre fiori, candele, immagini e lumini negli altari laici di strada che ricongiungono l’oggi al passato sovietico, rendendo omaggio all’ultima vittima della repressione governativa: e il punto decisivo di questa vicenda è che Navalny è morto di opposizione.

Di fronte all’evidenza politica dell’accaduto, la cattiva coscienza della nostra realpolitik (nel comodo riparo della libertà occidentale) è pronta ad accusare l’avversario del Cremlino di egoismo narcisistico, piegando la curva della sua giovane biografia fino a farla coincidere con la martirologia garantita dalla scelta del sacrificio.

Come se per tutti non ci fossero ormai principi e ideali, visto che noi non siamo in grado di tener fede ai valori in cui diciamo di credere, e non esistessero più gli assoluti: per i quali naturalmente chiunque si augura di non dover morire, ma forse - almeno per qualcuno - vale la pena vivere, anche nelle latitudini dell’abuso e del sopruso, sopportandone le conseguenze senza per forza barattare la coscienza con il cinismo, come consiglia la cifra dell’epoca.

Non c’è bisogno delle risultanze dell’autopsia per capire come il prigioniero dello Stato che aveva tentato due volte di ucciderlo sia stato accompagnato dal governo in una progressiva restrizione di vita e privazione di libertà, incanalato verso l’esito inevitabile, privato giorno dopo giorno di qualsiasi motivazione per l’esistenza residua che non fosse la pura resistenza, anzi ormai la testimonianza, il gesto più che la parola. È “quell’asma spirituale” denunciata dallo scrittore Andrej Belyj nel maggio del 1921 davanti alla morte di Aleksandr Blok, che al quarto anno dell’era bolscevica diagnosticava così la sua prossima fine: “Soffoco, tutti i suoni sono cessati. E il poeta muore perché non ha più nulla da respirare, la vita ha perso significato”.

Nello spazio ristretto, lontano, annullato di Navalny l’opposizione si era via via ridotta alla pura sopravvivenza, dunque al corpo che deperendo diventava denuncia, si trasformava in simbolo, ingigantiva in scandalo. Mentre custodiva il prigioniero, il potere sorvegliava in realtà questo processo quotidiano di annientamento rallentato, progressivo, inesorabile: appunto, un soffocamento. Il duello tra l’imperatore e il suo oppositore era giunto all’ultimo stadio, estremo, sotto gli occhi del mondo distratto: la vita (o ciò che ne restava) come accusa permanente, e dall’altra parte l’attesa che la morte cancelli ogni cosa.

Ma il nodo non si scioglie. Perché l’ostinazione di Navalny a rimanere fedele al suo atto d’accusa fino all’ultimo istante non è una semplice obiezione di coscienza ma un atto politico che nasce dal fondo del sistema e lo risale fino al vertice, rivelandolo nella sua natura. Lo scandalo universale certifica che il potere è dispotico, perché poggia sull’abuso e sul sopruso; svela che è autoritario, perché regola con misure di polizia i rapporti con il dissenso; conferma che è totalitario, perché non bastando alle sue paure la dotazione legittima di potere, ne pretende e ne incamera una quota ulteriore, illegittima e dittatoriale.

Il caso Navalny è talmente incarnato nella realtà russa che diventa lo specchio di ogni cosa, dalla repressione interna all’invasione dell’Ucraina, alla campagna del Cremlino contro la democrazia liberale, che trova qui oggi la sua prova del nove, il suo vero significato. C’è un mondo che sta scegliendo nella contemporaneità di vivere fuori dallo stato di diritto, cioè senza la separazione dei poteri, il principio di legalità, la garanzia dei diritti, l’indipendenza della magistratura, il concetto di uguaglianza. Dunque contro la democrazia: e a questo punto si comprende la guerra, e si capisce che ci riguardi.

Putin non è affatto solo, o isolato: al contrario si avvia a diventare il leader mondiale della battaglia antidemocratica, aiutato dal disprezzo crescente di molti occidentali per la forma democratica, le sue insufficienze e i suoi limiti, certo, ma anche la sua promessa continua di libertà. Di fronte a tutto questo, ha davvero un senso la battaglia isolata di un oppositore prigioniero? Ma la storia russa insegna sempre: nell’agosto 1986 un attivista dei diritti umani, Anatolij Marcenko, nel carcere di Vladimir comincia uno sciopero della fame a oltranza, con una richiesta che sembra folle e un obiettivo che pare impossibile: la liberazione di tutti i prigionieri politici detenuti nei lager e nelle carceri dell’Urss. Marcenko morirà il 9 dicembre per la sua protesta estrema. Ma una settimana dopo Mikhail Gorbaciov telefonerà personalmente a Andrej Sakharov a Gorkij, liberandolo dalla condanna al confino. Nelle Russie la follia fatale dei giusti non è mai davvero una follia.