Nigrizia, 16 ottobre 2024
Che da molti anni il regime del Fronte patriottico rwandese (RPF) di Paul Kagame, al potere dal genocidio del 1994, faccia ricorso a torture e trattamenti disumani all’interno delle strutture di detenzione in Rwanda non è una novità. A tornare a denunciare questa pratica è ora un nuovo, dettagliato rapporto di Human Rights Watch. “Gravi abusi dei diritti umani, compresa la tortura, sono all’ordine del giorno in molti centri di detenzione del Rwanda”, scrive HRW, che si è concentrata su tre strutture: le carceri di Rubavu e Nyarugenge e Kwa Gacinya, un’immobile nel quartiere Gikondo, a Kigali, usato come struttura di detenzione non ufficiale. Lo studio, basato sull’analisi dei documenti dei processi e sulle testimonianze di ex carcerati raccolte tra il 2019 e il 2024, descrive un sistema agghiacciante di violenze sui detenuti - in molti casi oppositori al regime o presunti tali - perpetrate dagli agenti penitenziari e anche dagli stessi reclusi, costretti a picchiare altri detenuti.
Il centro di Kwa Gacinya è il la porta di questo inferno, il luogo in cui le persone arrestate vengono portate dopo l’arresto per costringerle a confessare. Confessioni, si legge nel rapporto, ottenute con esecuzioni fittizie, percosse e torture. Tra queste, raccontano alcuni ex detenuti, l’isolamento in celle di un metro per due, simili a bare. Si passa poi al carcere. In quello di Nyarugenge i prigionieri hanno raccontato, nel corso di vari processi, di essere stati immersi con la forza nell’acqua e di essere stati poi picchiati da agenti penitenziari e altri detenuti. Una pratica che amplifica il dolore. Altri sono invece stati privati del sonno con la diffusione permanente di musica ad alto volume.
A Rubavu, ex carcerati denunciarono pestaggi spesso perpetrati dall’allora direttore della prigione, Innocent Kayumba, violenze che portarono, secondo diverse testimonianze, alla morte di undici prigionieri di cui HRW ha ottenuto i nomi. Kayumba fu in seguito trasferito alla direzione di Nyarugenge, cosa che, si legge nel rapporto, “gli ha permesso di mettere in atto le pratiche abusive e talvolta fatali in quella struttura, come aveva fatto nella prima”. Il quadro che emerge, fa notare l’organizzazione, è quello di un ben rodato e feroce sistema repressivo protetto da sostanziale impunità. L’unico funzionario ritenuto finora responsabile delle violazioni dei diritti umani compiute, evidenzia HRW, è proprio Innocent Kayumba, condannato a 15 anni di carcere lo scorso aprile per l’aggressione e l’omicidio di un detenuto a Rubavu nel 2019.
HRW fa notare la “totale incapacità di ritenere responsabili tutti gli altri alti funzionari carcerari coinvolti in questi abusi”. Un’impunità “aggravata dall’incapacità della magistratura e del Rwandan Correctional Service di ordinare indagini sulle accuse di tortura presentate in tribunale dagli imputati”.
Sotto accusa anche la Commissione nazionale per i diritti umani del Rwanda (NCHR), meccanismo incaricato di prevenire la tortura che “non è indipendente e non è stato in grado o non ha voluto segnalare casi di tortura”, negando costantemente, scrive HRW, che si siano registrati casi di tortura e maltrattamenti in detenzione. Il quadro, fa notare ancora il rapporto, si completa con le responsabilità delle autorità rwandesi, che “limitano sistematicamente il lavoro di altre istituzioni con il mandato di monitorare le condizioni carcerarie e prevenire la tortura”, anche a livello internazionale. Lungo e articolato l’elenco di richieste rivolte dall’organizzazione alle autorità nazionali, al parlamento, alla Commissione nazionale per i diritti umani, ma anche ad altri attori regionali e internazionali.