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di Giacomo Di Girolamo

linkiesta.it, 4 ottobre 2023

Mentre i giornalisti erano alla ricerca del dettaglio curioso da catturare in città al momento del ritorno della salma di Matteo Messina Denaro, nella casa circondariale i detenuti sex offender hanno portato in scena le opere del poeta inglese. E sotto un cielo di filo spinato è andato in scena il miracolo del teatro.

Peccato che se ne siano andati così presto, i giornalisti arrivati nei giorni scorsi a Castelvetrano, da tutto il mondo, per seguire l’arrivo, al cimitero cittadino, della salma del boss di Cosa nostra, Matteo Messina Denaro. Peccato che tra un’intervista al passante che fa le condoglianze, un servizio sullo “scandalo per la comunità che non si indigna”, le analisi sociologiche sulla Sicilia criminale, non abbiano trovato il tempo di farsi incuriosire da una locandina che era attaccata un po’ dappertutto: in tribunale, in commissariato, dai Carabinieri.

Nella locandina c’era disegnato il volto di Shakespeare, e infatti era una locandina per uno spettacolo teatrale: “Tutto Shakespeare in novanta minuti”. Il classico spettacolo teatrale delle scuole, avrà pensato qualcuno. La recita di fine anno. Anziché farla a giugno cominciano ora. E invece no. È stato qualcosa di diverso, di unico. Un piccolo miracolo. Ed è accaduto a Castelvetrano. Ed è accaduto in carcere.

Castelvetrano è infatti sede di una casa circondariale. Non ci mettono gli arrestati per mafia, sgombriamo già il campo dagli equivoci. Non si fa detenzione a chilometro zero. È un carcere, comunque, particolare, perché è destinato ai cosiddetti sex offender, cioè coloro che scontano pene per reati di violenza sessuale. Molestatori, stupratori, pedofili. Il campionario è vario. Gli ultimi ad arrivare sono stati i ragazzi coinvolti nel terribile episodio dello stupro di gruppo dello scorso luglio a Palermo. Ci sono poi condannati per pedofilia, gente che ha abusato dei figli, altri che hanno massacrato di botte la compagna, quelli che sui giornali etichettiamo sbrigativamente come “orchi”.

Sono detenuti che vivono un doppio isolamento. Uno è quello del carcere, l’altro è lo stigma che li accompagna, e che li porta a non essere accettati dai detenuti comuni. Il detenuto sex offender vive infatti isolato e discriminato.

Quando si parla di femminicidi, di reati a sfondo sessuale, si pensa sempre, giustamente, alle vittime. In pochi pensano a cosa fare di chi resta, degli orchi. Ci hanno pensato i volontari (volontari nel senso pieno della parola: zero contributi, zero rimborsi) del laboratorio teatrale: Katia Regina, educatrice professionale, Cinzia Bochicchio, actor coach, Federico Brugnone, regista. E ancora, Maria Pia Culicchia, musicoterapeuta, e l’Associazione culturale Skenè di Massimo Licari. Grazie alla loro ostinazione, dopo mesi e mesi di prove in saloni roventi, un nutrito gruppo di detenuti ha messo in scena “Tutto Shakespeare in novanta minuti”, una parodia delle più celebri opere del famoso drammaturgo.

Lunedì 2 ottobre, la prima, per uno scelto pubblico di autorità. In tempi in cui c’è chi ha un attacco di panico quando si accorge di aver dimenticato il cellulare a casa, entrare in un carcere, dovendo lasciare tutto, a cominciare proprio dai telefonini, è un’esperienza ai limiti della realtà. Ma, d’altronde, le carceri sono fuori dalla realtà. Per l’occasione, il carcere di Castelvetrano è stato ripulito da cima a fondo, con tanto di tappeto color blu guardia penitenziaria per accogliere le autorità, i signori magistrati, il paio di giornalisti interessati, il vescovo.

Un atto unico, nel senso del numero e della specialità. Nessuna ripresa, nessuna foto, nessun bis. Il palco è stato allestito nel cortile interno del carcere. In un angolo, un rinfresco - solo per gli ospiti, però - servito da altri detenuti. Tre colpi sordi, pam, pam, pam. E sotto un cielo di filo spinato, è andato in scena il miracolo del teatro. Che poi è il miracolo della vita. Qui, nell’inferno degli orchi. Abbiamo pianto, abbiamo riso. Abbiamo visto piangere e ridere. Abbiamo visto recitare. Abbiamo visto Otello, pure lui, e il suo abisso. Abbiamo pensato a quel senatore che, a proposito di reati sessuali, parla di “castrazione chimica”. Abbiamo pensato a quell’articolo della Costituzione, il 27: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Abbiamo visto ragazzi e adulti, italiani e stranieri, alti e bassi, tatuati o elegantissimi, in tuta o in canottiera, o con giacche troppo strette o troppo lunghe, a un certo punto interrompersi e cantare, a squarciagola, “Il mio canto libero” di Battisti, aggrappandosi, a un anelito di amore, di vero amore, che pure per loro, all’inferno, è concesso, per non morire ogni giorno.

Li abbiamo visti andarsene, ordinati e felici, in fila quando tutto è finito, perché le mura del carcere si sono rinchiuse di nuovo su di loro. Non hanno potuto prendersi i complimenti, si sono risparmiati, però - fortuna loro - tutti gli interventi delle autorità, i discorsi che hanno illustrato l’attività “cadenzata”, le giustificazioni per gli assenti per “gli impegni sopraggiunti”, i “benefici rieducativi”, il parolaio della burocrazia, insomma, che nel carcere, come ogni detenuto impara presto, sa essere spietato.

Prima di andare via, un paio di detenuti ha fatto un fuori programma. Uno ce lo ha urlato in faccia: a me sembrava tempo perso, invece ho scoperto parole, cose, è stato bellissimo. Un altro, infine: finalmente non mi sento più un giocattolo rotto. C’è anche il tempo per recitare una poesia, scritta in stampatello su un foglio di block notes. Si chiama Libertà. E a un certo punto recita: “Sfòrzati a pensare / che sarai un uomo migliore / che non ti farai più cogliere dall’errore. / Sulla tua schiena il peso dei tuoi sbagli / sulla tua fronte il sudore del tuo dolore”. Quanta vita, qui nell’inferno del carcere, tra gli orchi, qui, proprio qui a Castelvetrano. Peccato che i giornalisti erano tutti fuori dal carcere, a fare la scorta alle spoglie di Messina Denaro.