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di Luigi Bussu

italiachecambia.org, 12 febbraio 2024

L’esistenza di reparti detentivi all’interno degli ospedali migliorerebbe l’accesso dei detenuti alle prestazioni sanitarie, da cui oggi sono quasi del tutto tagliati fuori, e le condizioni di lavoro degli agenti di custodia. La cosa assurda è che da oltre dieci anni ne esiste uno presso il nosocomio cagliaritano del Santissima Trinità, ma viene utilizzato come magazzino.

Per i detenuti ammalarsi in carcere è davvero un grosso problema: negli istituti penitenziari sardi - così come negli ospedali - mancano i medici a cui rivolgersi. Provano a metterci una pezza gli infermieri, a cui però non resta che contattare lo zoppicante sistema sanitario regionale per prenotare esami e visite del caso. Ci sono poi gli agenti di custodia, perennemente sotto organico, chiamati a scortare i detenuti nelle strutture cliniche o a piantonarli in caso di ricovero. In altre parole, quando un recluso ha bisogno di cure sono tutti in difficoltà.

In questa situazione, un reparto detentivo - dotato, cioè, di sbarre e cancelli - all’interno degli ospedali risolverebbe sia i problemi di accesso della popolazione carceraria alle prestazioni sanitarie sia quelli legati alla sicurezza che la polizia penitenziaria deve garantire. L’assurdo è che presso l’ospedale cagliaritano del Santissima Trinità “ne esiste uno da anni, che però viene usato come magazzino”, denuncia Luciano Fei, medico responsabile della sanità penitenziaria dell’Asl di Cagliari. Per sbloccare l’impasse servirebbe una delibera della giunta regionale, che però non è mai arrivata. Ragion per cui Indip ha contattato l’assessore regionale alla Sanità Carlo Doria, il quale non ha però dato seguito alla nostra richiesta d’intervista.

Quando si parla di sanità penitenziaria, il mancato utilizzo del reparto detentivo è probabilmente uno dei problemi più gravi. Ma di certo non l’unico. Per farsi un’idea più precisa basta consultare il report rilasciato da Antigone, un documento frutto di molteplici sopralluoghi effettuati nelle carceri sarde la scorsa estate. Il quadro che ne emerge è preoccupante, specie se si parla dei problemi di salute mentale dei detenuti. Ovunque, gli psicologi latitano.

Al momento il monte ore settimanale assicurato da questi specialisti è risultato costantemente inferiore a quanto prescritto: 38 su 78 previsti a Cagliari, 6 e 12 anziché 38 a Lanusei e Nuoro. Nel contempo, al carcere di Uta, poco lontano da Cagliari, si son verificati ben 276 casi di autolesionismo su 573 detenuti, mentre a Sassari sono stati 127 su 443 detenuti reclusi. Ma in carcere non è solo la sanità ad arrancare.

Sempre secondo Antigone, nel carcere di Uta mancano 110 agenti rispetto ai 421 necessari. A Sassari invece ne mancano all’appello 108 rispetto ai 400 previsti. Inoltre le dieci case di reclusione sarde sono gestite da soli tre direttori, di cui uno, Marco Porcu, è responsabile dei due più grandi, ovvero quello di Bancali a Sassari e quello di Uta. “Questo influisce sulla vita del carcere, perché il direttore è lo snodo da cui parte tutto. Se si divide su tre istituti non potrà concentrarsi su nessuno”, dichiara la coordinatrice nazionale dell’associazione Antigone Susanna Marietti.

A Cagliari un reparto detentivo allestito con tutti i canoni di sicurezza esiste già, ma - benché sia pronto da anni - non è mai stato inaugurato. In altre parole, siamo di fronte a un caso di soldi pubblici buttati al vento. Quanti non si sa: la cifra è ignota persino all’Asl di Cagliari, anche perché la sua realizzazione si perde nella notte dei tempi e non è possibile risalire al dato tramite l’albo pretorio. Nel frattempo, quegli spazi hanno cambiato destinazione. “Oggi vengono usati come deposito del laboratorio di analisi”, rivela Fei. Per sbloccare la situazione servirebbe un intervento della giunta regionale, “ma in Regione credono che il numero dei pazienti-detenuti non sia tale da giustificare l’esistenza di un reparto. Questa è la linea ufficiale”.

Il ricorso a un reparto detentivo tutelerebbe gli stessi detenuti. Nel dicembre 2021 infatti, un 56enne ricoverato a Cagliari è sfuggito al controllo degli agenti e si è tolto la vita gettandosi dalla finestra. “Se fosse stato in un reparto penitenziario, con le sbarre, non sarebbe successo”, conclude Fais. La possibilità di essere ricoverati in sicurezza migliorerebbe l’accesso alle cure di chi viene privato dalla libertà: la degenza in ospedale infatti consente ai detenuti di effettuare in maniera più agevole visite ed esami di ogni tipo.

D’altronde l’utilizzo della struttura già esistente al Santissima Trinità non sembra porre problemi irrisolvibili. Secondo Luciano Fei “il detenuto dovrebbe essere affidato al reparto che si occupa del suo problema, ma fisicamente verrebbe a trovarsi in quello detentivo. Penso che in Regione non abbiano capito - continua il medico dell’Asl di Cagliari - che non deve essere un reparto vero e proprio con personale medico dedicato, ma più un punto d’appoggio”.

La questione è chiarissima: “A più di dieci anni dal passaggio della sanità penitenziaria dal ministero alle Asl ancora siamo lontani da un adeguamento concreto verso i bisogni dei detenuti che vanno aggiornati, perché i carcerati con gravi problematiche di salute sono sempre di più, anche perché il numero stesso delle persone recluse è in aumento”, aggiunge Maria Grazia Caligaris dell’associazione Socialismo, diritti e riforme, da sempre un occhio vigile sul mondo del carcere.

Quasi sempre, prima di approdare in ospedale, i detenuti devono affrontare un percorso a ostacoli non indifferente. L’anno da segnare in rosso è il 2012, quando cioè la medicina penitenziaria è diventata una competenza delle Asl - prima era una prerogativa del ministero della Giustizia. Il punto è che da allora “il detenuto viene trattato in tutto e per tutto come se fosse un cittadino libero, quindi deve rispettare le liste d’attesa e tutti i passaggi del caso, ma in realtà la sua situazione è molto diversa: essendo privato della libertà, non può muoversi in autonomia. Se ti serve uno specialista e non c’è nel tuo paese, ne trovi un altro più o meno vicino o vai da un privato. Un detenuto non può”, argomenta Fei, per il quale il carcere dovrebbe avere “un apposito sistema di prenotazione e di pagamento delle prestazioni sanitarie”.

“C’è un nostro infermiere che occupa tutto il suo tempo al telefono cercando appuntamenti per i detenuti”, continua sconsolato il responsabile della sanità penitenziaria. E aggiunge: “Facciamo i salti mortali chiamando gente che conosciamo per chiedere che visitino i nostri reclusi. Io che ho lavorato al Brotzu chiamo il Businco implorando una visita dicendo “dai questo è grave, ti prego visitamelo, quest’altro non può più aspettare e via dicendo”. Il dramma è che succede tutti i giorni e, devo dirlo, non mi pare una cosa dignitosa, sia per noi che per le persone private della libertà”, conclude Fei.

Per la presidente dell’Associazione sarda per l’attuazione della riforma psichiatrica Gisella Trincas, che ha denunciato con forza lo stato di abbandono in cui sono costretti a vivere i detenuti che soffrono di disagio mentale, “il carcere aggrava le condizioni di chi ci arriva senza sofferenza mentale, figurarsi che effetto può avere su chi già ne è colpito. Non ha senso la detenzione delle persone così, è un accanimento”.

Trincas punta il dito contro la politica, rea di aver smantellato i dipartimenti di salute mentale. “In Sardegna sono stati tutti accorpati e ridotti. Sassari ne aveva due, adesso c’è solo un’unità complessa. Gli operatori sono diminuiti: mancano medici, infermieri e soprattutto psicologi. Non bastano neanche gli educatori, gli assistenti sociali e persino le figure amministrative. Se da chi governa la sanità non arrivano risorse - aggiunge Trincas -, si impoveriscono i servizi ed è un disastro per tutti. Manca proprio la cultura del servizio sociale”.

I casi psichiatrici più gravi vanno nella Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza) di Capoterra, che dispone però solo di 16 posti. A detta di Gisella Trincas “non può essere l’unica soluzione. Il dipartimento di salute mentale ha la responsabilità di elaborare progetti di recupero anche per le persone responsabili di reato con problemi meno gravi. La Rems deve essere l’ultima scelta”. Senza contare che “la stessa Rems al momento non ha uno psicologo. Questo è di una gravità inaudita, ne dovrebbe avere più di uno insieme ad assistenti sociali e terapisti di riabilitazione psichiatrica”, conclude Trincas. Insomma, in teoria tutti i cittadini hanno diritto alla tutela della salute, sia fisica che mentale, e all’accesso alle cure. Ma se all’atto pratico in Sardegna la garanzia di tale diritto è un problema anche per chi non è in carcere, le persone private della libertà personale ne sono proprio tagliate fuori.