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di Angela Chiodo

intersezionale.com, 20 ottobre 2022

La presenza femminile in carcere assume i connotati atipici dell’anomalia: le strutture, le regole e l’organizzazione interna, infatti, sono plasmate su un modello monolitico, declinato al maschile. Soltanto quattro istituti in Italia sono stati pensati esclusivamente per le donne; nella maggior parte dei casi, invece, queste ultime fanno il loro ingresso in sezioni femminili ubicate all’interno di carceri popolate da detenuti.

Nel tessuto normativo dell’ordinamento penitenziario, poi, le norme che rivolgono la propria attenzione alle persone private della libertà personale di genere femminile, senza un focus espresso sulla funzione riproduttiva, sono di carattere residuale. Infatti, soltanto negli articoli 14 e 42 bis si fa un preciso riferimento alle donne detenute (seppur per aspetti relativi all’organizzazione penitenziaria): il primo introduce un principio di separazione tra uomini e donne, contemplando istituti differenti o, al più, la permanenza delle donne all’interno di apposite sezioni; il secondo richiede l’assistenza di personale femminile durante la traduzione di detenute da un luogo esterno all’altro. Maggiore attenzione alle esigenze femminili, sul fronte dell’igiene e della cura della persona, viene prestato dal D.p.r. 30 giugno 2000 n. 230 (Cd. Regolamento di esecuzione): gli articoli 7 e 8 infatti ammettono, per le donne, la possibilità di usufruire dei servizi di parrucchiere e del bidet; soprattutto, per attenuare la spersonalizzazione e assicurare il giusto spazio all’espressione della personalità femminile anche dietro le sbarre, è consentito l’utilizzo di prodotti cosmetici e di piccoli accessori.

L’identikit femminile approntato dal legislatore del ‘75 è prevalentemente quello della madre, tanto da dedicare una vasta gamma di disposizioni alla cura del minore e al mantenimento della relazione genitoriale. Rispetto al ruolo di lavoratrice, tuttavia, lo sforzo immaginativo lascia molto a desiderare: da un lato, le posizioni lavorative ricoperte dalle donne detenute hanno prevalentemente connotazioni domestiche (pulizie, lavanderia, aiuto cuoco, sartoria); dall’altro, i protocolli attivati per questa fetta di popolazione reclusa lasciano poco spazio alla sfera creativa femminile, instradandosi prevalentemente sulla traiettoria della cura e dell’assistenza alla persona.

La sottorappresentazione normativa nei confronti della specificità della detenzione femminile non è, però, una prerogativa nazionale. A livello sovranazionale, infatti, riferimenti ad hoc per le donne autrici di reato occupano un posto marginale nelle Standard Minimum Rules for the Treatment of Prisoners del 1955; sarà con le note European Prison Rules del 2006 che viene reclamata una maggiore attenzione nei confronti della condizione femminile: l’articolo 34 .1, non a caso, prevede che le decisioni che riguardano aspetti della detenzione femminile non possano prescindere da un’attenzione rivolta ai bisogni fisici, professionali, sociali e psicologici delle donne. Il salto di qualità, tuttavia, è costituito dalle Bangkok Rules adottate nel 2010 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, proprio per colmare tale lacuna normativa: pur trattandosi di uno strumento di soft law, esso si rivolge agli Stati affinché assicurino programmi di trattamento penitenziario conformi alle differenze di genere e incentivino sanzioni di natura non detentiva.

Nel tentativo di allinearsi agli standard internazionali e di accogliere e riconoscere la complessità femminile, soprattutto sotto il profilo simbolico e valoriale, nel 2008 il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha adottato una circolare contenente il prototipo di un regolamento interno per gli istituti e le sezioni femminili, ad esclusione dei circuiti di Alta Sicurezza. Come evidenziato dalla stessa circolare, le disposizioni contenute nel regolamento-tipo rappresentano un contributo alla modificazione dei modi e dei tempi della vita detentiva, in modo da avvicinarli ai bisogni della popolazione femminile, con particolare attenzione alla dimensione affettiva (artt. 19 e 20), alle specifiche necessità sanitarie (art. 16, 23 e 25), al diverso rapporto con le esigenze della propria fisicità (art. 9, 10, 16 e 24) e alla necessità di offrire pari opportunità di reinserimento sociale (art. 30 e 33). Il corpus normativo tuttavia, ad avviso di chi scrive, è ancora lontano dall’assimilazione di una visione non stereotipata della donna: quando si richiede che gli operatori penitenziari, nello svolgimento del lavoro, stimolino “il senso di responsabilità delle detenute, in modo che l’attività lavorativa sia svolta con impegno idoneo ad assicurare risultati economicamente utili” o, ancora, si consente “l’attività sportiva negli spazi all’aperto, purché sia “svolta in modo da non recare molestia alla restante popolazione detenuta”, si sta di fatto appiattendo la valutazione complessiva su giudizi di natura morale.

Anche per tali ragioni, è da accogliere con slancio positivo la recentissima sigla del Protocollo “Atena Donna” da parte dell’Amministrazione Penitenziaria e della Fondazione di cui il protocollo prende il nome, in cui spicca una attenzione trasversale per il benessere femminile (di recluse e agenti di custodia) e per la donna globalmente intesa.

Nonostante la presenza femminile nei luoghi di detenzione sembri passare sotto silenzio (oscillando tra il 4 e il 5% della popolazione detenuta), il potenziale trasformativo che si porta dentro diventa motore trainante dello sviluppo di una coscienza critica dietro le sbarre: a questo proposito, ad esempio, grande risonanza ha avuto l’appello lanciato dalle detenute della III sez. femminile del carcere di Torino “Lorusso-Cotugno” e indirizzato anche alla nostra Associazione, con cui si chiedeva alla Ministra della Giustizia Cartabia la reintegrazione della liberazione anticipata speciale al fine di diminuire la capienza interna degli istituti, compromessa da alte percentuali di sovraffollamento carcerario, in epoca pandemica; in particolare, proprio per “riconoscere a tutti (i ristretti) la dignità di essere cittadini e non numeri” chiedevano, come segno tangibile di una presa di posizione che evidenziasse civiltà e rispetto dei diritti, di estendere tale misura anche ai detenuti condannati per reati ostativi.

Sulla stessa linea di coesione e solidarietà dal tocco femminile, le lettere indirizzate dalle detenute del carcere delle Vallette a Nicoletta Dosio: si tratta, questa volta, di uno sciopero della fame a staffetta per sensibilizzare sull’allarmante aumento dei suicidi all’interno delle carceri. Un modo per manifestare la propria indignazione dinnanzi all’assordante silenzio politico sul tema.

Affinché questo spirito vitale non si riduca a una scintilla sempre più fioca, occorre sforzarsi di dare voce alle testimonianze delle “sconquassate solitudini” che popolano il carcere femminile, soprattutto incentivando le attività di esplorazione del sé attraverso la scrittura. Oltre a ciò, l’auspicio è che il modello carcerario declinato al maschile ripensi sé stesso con progetti e risorse umane maggiormente aderenti ai bisogni delle donne e alla complessità dell’universo femminile. Del resto, di un carcere “a misura di donna” ha parlato anche il giudice Semeraro in un’intervista rilasciata al quotidiano “Repubblica”, in occasione della tristemente nota vicenda di Donatella Hebdo: un’altra esistenza, la sua, soffocata prematuramente da un sistema che, nel suo complesso, amplifica a dismisura la fragilità e la marginalità esistenziale.

Indispensabile, a tal fine, è non soltanto investire sulla formazione globale degli operatori penitenziari, affinché vengano tenute in considerazione le specificità della detenzione femminile e il trattamento rieducativo possa a tutti gli effetti essere individualizzato e rispondere ai bisogni della persona; essenziale, infatti, risulta anche un maggiore coinvolgimento delle detenute in percorsi scolastici e di formazione: il reinserimento sociale di donne vulnerabili ed economicamente svantaggiate non può prescindere da una maggiore attenzione nella costruzione di percorsi condivisi, che garantiscano un’ autonomia personale e professionale.