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di Gianpaolo Catanzariti

Il Dubbio, 30 marzo 2024

Il caso Bari e l’assurdo di una legge che mortifica il voto senza scalfire le infiltrazioni. Che si annidano altrove. Il “caso Bari” ha scatenato un putiferio politico. Ma, come spesso accade in occasione delle più sconce vicende che calpestano lo Stato di diritto, siamo ancora alla solita strumentalizzazione politica. Un po’ come avvenuto con il caso Cospito che, lungi dall’essere occasione di revisione dell’anacronistico 41 bis, ha visto l’assurda convergenza, tra tutte le forze politiche, nessuna esclusa, sulla indispensabilità del carcere duro.

Così per Ilaria Salis, puerile comparazione tra l’Ungheria e l’Italia sulla disumanità delle carceri, piuttosto che l’occasione per imporre una Carta penitenziaria, vincolante per i paesi del Consiglio d’Europa. O, ancora, dinanzi al dilagare dei suicidi nelle carceri, la polemica su chi ha introdotto nuovi reati o più ha inasprito le pene, senza affrontare il vero buco nero della democrazia italiana, la condizione vergognosa delle carceri italiane.

E così che appare il dibattito politico sullo strumento dello “scioglimento dei comuni per mafia”, del tutto inadeguato se non politicamente pilotato. Con un centro-destra, almeno Forza Italia, imbarazzato ed ondivago dinanzi alla piega giustizialista del “caso Bari”; un Pd confuso in cui, accanto allo sconcerto per la strumentalizzazione della misura, si trovano le solite posizioni di omertoso, perciò sospetto, silenzio.

Eppure, a parte l’onorevole Bruno Bossio, solitaria firmataria in passato di una proposta di legge comunque migliorativa sugli scioglimenti, di recente si è levata la voce autorevole dell’onorevole Orfini, già presidente del Pd, che, con grande onestà intellettuale e chiarezza, invoca una discussione laica per ripensare un meccanismo divenuto, nel tempo, un infernale strumento di lotta politica, inidoneo ad arginare le infiltrazioni mafiose nei Comuni.

E allora che discussione laica sia, purché si giunga ad una riforma radicale. Non è più il tempo di modifiche buone solo per la propaganda politica. Quando alcuni anni fa, assieme a Pierpaolo Zavettieri, Mimmo Gangemi, Ilario Ammendolia, Andrea Cuzzocrea, sollevammo, in Calabria, con forza l’ipocrisia della lotta alla mafia attraverso lo “scioglimento dei Comuni”, commettendo sacrilegio dinanzi alle vestali dell’antimafia, nessun partito in Parlamento ci diede ascolto. Anche l’Anci Calabria, benché i numeri della misura in quella regione fossero allarmanti, si chiuse a riccio. Solo il Partito Radicale, quello di Marco Pannella, cogliendo il senso profondo della iniziativa, manifestò interesse per una lotta di avanguardia. E così che il 29 maggio 2018, assieme all’Ucpi, Migliucci presidente e Petrelli segretario, depositammo in Cassazione 8 proposte di legge di iniziativa popolare, tra cui quella sullo scioglimento dei Comuni.

L’idea era, e rimane, quella di una radicale trasformazione dell’istituto, partendo proprio dall’analisi storica delle sue concrete applicazioni. I numeri rilevanti dal ‘91, data del cd decreto Taurianova, ad oggi impongono una profonda riflessione e una indifferibile modifica per rendere lo strumento più efficace nel contrastare il condizionamento, evitando, al contempo, l’annientamento di una effettiva partecipazione popolare alla vita amministrativa delle comunità, unico vero antidoto alle mafie.

I comuni sciolti ad oggi sono stati ben 380. Il 20% ha subìto, spesso a distanza ravvicinata, più scioglimenti. Se la terapia, quindi, non è riuscita a debellare l’infezione mafiosa, al punto da richiedere un secondo intervento, forse sarebbe il caso di rivederla. Continuando con l’accanimento terapeutico rischiamo il decesso del paziente ovvero di quelle comunità.

Alcuni anni fa uno studio condotto dal ministero dell’Interno tra i cittadini dei Comuni sciolti, segnalava come il 24% degli intervistati giudicava la misura “un complotto politico”, il 14,2% una “inutile perdita di tempo”, il 38% provava “indifferenza” verso la rimozione degli organi politici e il 28,5% “rassegnazione”. Risposte emblematiche sulla sfiducia nutrita dai cittadini verso la draconiana misura antimafia.

Occorre, allora, superare il paradigma emergenziale posto alla base dell’attuale legge, per rimettere al centro una mirata verifica sulla gestione “pubblica” locale. La stragrande maggioranza dei comuni sciolti presentano gravi deficit gestionali/organizzativi dei servizi. Non sarebbe il caso, piuttosto che rimuovere gli organi politico-amministrativi, rispondere, in via principale, con supporti e interventi per turare le falle gestionali, facili ingressi per gli appetiti criminali?

Occorre spostare l’attenzione dello Stato dalle relazioni personali alle condotte amministrative in grado di segnalare, in concreto, il condizionamento mafioso. Ritenere, benché del tutto ininfluenti nella gestione amministrativa, un rapporto di lontana parentela o una interlocuzione occasionale, forme di contagio mafioso serve solo alla strumentalizzazione politica.

Questo dovrebbe fare, in via principale, una commissione d’accesso, affiancata magari da un rappresentante dell’ente interessato, in funzione consultiva e di contraddittorio, per poi relazionare alla filiera sovrastante. Solo in assenza assoluta di rimedi davvero preventivi e in presenza di elementi concreti, univoci e rilevanti su collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata, capaci, in concreto, di una alterazione del procedimento amministrativo/gestionale di un comune si dovrà giungere all’estremo scioglimento.

Così come occorre una fase di effettiva verifica dell’operato svolto dalla commissione straordinaria in chiave di bonifica dell’ente, magari entro tre mesi dall’insediamento della nuova amministrazione eletta. Non è raro, infatti, nel Comune oggetto di reiterata decapitazione, riscontrare le stesse criticità/permeabilità segnalate nel precedente scioglimento, segno di inadeguatezza dei commissari. Il testo “radicale” è ancora là, pronto ad essere discusso e recepito, sempre che si voglia rendere lo scioglimento per mafia un efficace antidoto alle infiltrazioni mafiose, affrancandolo dalla condizione di strumento di lotta politica.