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di Michele Ainis

La Repubblica, 16 maggio 2022

Mettersi sulla difensiva dinanzi al discredito che ha sommerso il potere giudiziario e mentre i cittadini attendono processi più lunghi delle guerre puniche, quello sì, è un errore.

S’annunzia oggi (lunedì 16 maggio) uno sciopero, quello dei giudici italiani. E c’è in vista una riforma dell’ordinamento giudiziario, già timbrata il 26 aprile dalla Camera. Per la verità, sulla giustizia c’è in vista pure un referendum. Anzi cinque, ma non ne parla mai nessuno. Tanto che la percentuale d’elettori interessati al voto, stando a un sondaggio Swg del 9 maggio, viaggia attorno al 30%, ben lontano dal quorum di validità. Cominciamo da qui, perché questo torpore?

La guerra, certo, che ha sommerso come una colata lavica ogni altra questione. E però non solo. C’entra altresì la complessità della materia, il tecnicismo dei quesiti: per dirne una, quello sulla separazione delle funzioni tra giudici e pm snocciola 1068 parole, senza mai un punto, senza un capoverso. C’entra la perfidia di cui ha dato prova la Consulta, disinnescando i tre referendum che avrebbero viceversa acceso gli italiani: la responsabilità dei magistrati, ma soprattutto eutanasia e droghe leggere. Sicché voteremo sul numero di firme che deve raccogliere ogni candidato al Csm, ma non sulle questioni della vita e della morte, dei doveri e dei diritti. Rispetto a queste superiori controversie, siamo sempre un popolo bambino.

O forse c’entra il disincanto che ti monta addosso dopo mille riforme precedenti, che non hanno mai tagliato le unghie alle correnti giudiziarie. E dopo mille referendum poi traditi, come avvenne nel 1987, circa la responsabilità civile dei magistrati. D’altronde stavolta può succedere ancora prima del voto: almeno due quesiti (valutazione dei giudici e liste al Csm) rischiano infatti d’essere annullati, se la riforma Cartabia passa anche in Senato.

Tanto rumore per nulla, verrebbe da osservare. Né la riforma, né a loro volta i referendum, cambieranno i connotati della giustizia italiana. L’abbattimento delle firme (da 25 a 50), per esempio: così i magistrati non dovranno più chiedere soccorso ai gruppi associativi per candidarsi al Csm, ma il loro appoggio rimarrà comunque indispensabile per essere poi eletti. Tutt’altra storia se fosse stato introdotto il sorteggio, neutralizzando davvero le correnti. Ma l’innovazione è parsa troppo ardita per le nostre prudenti inclinazioni.

Eppure prima il Consiglio superiore della magistratura (con un parere negativo di 142 pagine), poi l’Associazione nazionale magistrati (con il primo sciopero dopo 12 anni), sparano a palle incatenate. Per quali ragioni? Forse per il timbro garantista che contrassegna i referendum, specie sull’abolizione della legge Severino e sui limiti alla custodia cautelare. Forse per l’indirizzo restrittivo sulla libertà dei magistrati che si è fatto largo in Parlamento, introducendo per esempio il fascicolo delle performance di ciascun giudice, stabilendo un unico passaggio (anziché quattro) fra magistratura giudicante e requirente, precludendo agli eletti il rientro nelle aule giudiziarie. O forse per un riflesso conservatore, che alle nostre latitudini accomuna ogni categoria dinanzi ai cambiamenti, sia pure minuscoli o modesti. Non che la conservazione sia di per sé un errore.

Dipende da cosa si vuole conservare: c’è forse qualcuno che non vorrebbe conservare per tutta la vita la sua mamma? Però chiudersi in trincea dinanzi all’onda di discredito che ha sommerso il potere giudiziario per il caso Palamara, e mentre i cittadini attendono processi più lunghi delle guerre puniche, quello sì, è un errore. Com’è un errore immaginare, da parte dei politici, che basti aggiungere un po’ di cipria o di rossetto a qualche legge, per rendere la Dea della giustizia più avvenente.