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di Monica Guerzoni

Corriere della Sera, 10 luglio 2023

Il tentativo di mediazione del sottosegretario Mantovano. Meloni sarebbe pronta a sostenere la ministra Santanchè anche in caso di rinvio a giudizio. Tutti a Palazzo Chigi, a cominciare da Giorgia Meloni, avevano messo in conto una reazione (anche aspra) dei magistrati. Ma quando la botta è arrivata, la presidenza del Consiglio ha lasciato trapelare la “sorpresa” per le sferzate che il presidente dell’Anm Santalucia ha indirizzato alla maggioranza.

L’accusa di voler delegittimare un potere cruciale dello Stato e la richiesta di rispettare le prerogative costituzionali mettono in evidente difficoltà l’esecutivo. Adesso il dilemma per i meloniani è trovare un equilibrio tra la difesa e l’attacco e dimostrare che la colpa di uno scontro che rischia di riportare l’Italia indietro di sei lustri non è di Palazzo Chigi, né di via Arenula, ma di quella “fascia della magistratura” che faziosamente, e su spinta della sinistra, avrebbe aperto anzitempo la sfida elettorale per le Europee.

Giorgia Meloni non vuole andare alla guerra contro i giudici, o almeno non voleva. “È uno scontro che non conviene a nessuno e non siamo stati noi a cercarlo - ripete in queste ore a dir poco difficili -. Non siamo noi che abbiamo alzato per primi i toni”. Ma qualcosa di “molto grave” è accaduto e la reazione del governo è stata “obbligata”.

La convinzione al vertice di Fratelli d’Italia e dell’esecutivo è che una parte della magistratura si sia mossa per stoppare la riforma della giustizia targata Carlo Nordio e abbia usato strumentalmente prima il caso della ministra Daniela Santanchè e poi quello del sottosegretario Andrea Delmastro. Ma “l’assalto è fallito”, è il messaggio che arriva dai piani alti del governo, perché Meloni “non arretra” e le nuove norme andranno avanti. Accelerare verso la separazione delle carriere “non è una ripicca, né una vendetta”, perché la svolta “è nel programma elettorale del centrodestra”.

La linea (dura) non cambia. Ora però il timore di ripiombare nella stagione berlusconiana della guerra permanente tra il potere e le toghe serpeggia anche a Palazzo Chigi. Lo ha fatto capire il sottosegretario-magistrato Alfredo Mantovano, quando ha detto che “il problema dell’interferenza di alcune iniziative giudiziarie sull’attività politica riguarda tutti, centrodestra e centrosinistra, e in 30 anni ha colpito tutti i governi”. Un tentativo di mediare, per convincere le parti a superare le contrapposizioni e non alimentare un incendio che certo non giova alle istituzioni. I partiti di opposizione guardano al Quirinale, ma non è detto che al rientro dal Paraguay il presidente Mattarella vorrà rendere pubblico il suo stato d’animo sul braccio di ferro tra governo e magistrati.

Giorgia Meloni si sente sotto attacco e non fa nulla per nascondere la sindrome del fortino assediato da un “certo potere costituito”, che non vuole arrendersi alla vittoria della destra. L’indagine su Santanchè per bancarotta e falso in bilancio e l’imputazione coatta per Delmastro, accusato di rivelazione di segreto d’ufficio sul caso dell’anarchico Cospito, sono vissuti nell’entourage della premier come un “avviso per spaventarci”. Il teorema è in sostanza questo: “C’è un filone politico che vede in alcune toghe uno strumento per cambiare gli equilibri di potere senza rispettare il voto degli italiani e il consenso”. E questo filone politico, a sentire i meloniani, farebbe capo ad alcuni “pezzi grossi” del Pd: “Pensano che non possiamo governare perché saremmo razzisti, fascisti, omofobi e provano a farci cadere usando singoli magistrati”.

La prima reazione della leader della destra è stata proteggere i suoi. Delmastro “non si tocca” e Santanchè può dormire tranquilla, per qualche tempo ancora. Per quanto la posizione della ministra imbarazzi anche molti leghisti, azzurri ed esponenti di FdI, la premier sarebbe tentata di resistere persino a un eventuale rinvio a giudizio.

Il modello è il caso della sottosegretaria Augusta Montaruli, nominata al governo nonostante una condanna in secondo grado e costretta a dimettersi solo dopo la sentenza di Cassazione. Quanto a Ignazio La Russa, tra i colleghi ci sono due scuole di pensiero. C’è chi include la vicenda del figlio nel presunto assalto dei giudici alla destra e chi invece pensa che la seconda carica dello Stato avrebbe dovuto “mordersi la lingua” prima di difendere il terzogenito Leonardo Apache accusato di violenza sessuale e alimentare dubbi sull’autrice della denuncia.