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di Luigi Ferrarella

Corriere della Sera, 25 novembre 2023

Introdotta dalla legge Cartabia nel 2022, è inattuata perché mancano centri e mediatori. Il genitore, un carabiniere, affronterà un processo penale: stava accompagno la piccola all’asilo nido. Marito e moglie annichiliti come genitori, e dilaniati nel loro matrimonio, dalla tragedia della figlioletta di un anno scordata in auto per automatismo mentale dal padre che la stava portando all’asilo nido a Roma, e nella caldissima giornata del 7 giugno morta sul sedile proprio per il colpo di calore: per pochi altri dolori, come questo, lo spazio giusto — invece di un processo penale al padre per omicidio colposo — sembrava uno dei nuovi percorsi di “giustizia riparativa” introdotti anche in Italia nel 2022 dalla legge Cartabia.

Infatti era quanto chiesto al Tribunale dall’avvocato Giovanna Mazza dell’imputato, un carabiniere di 45 anni, con il parere favorevole del procuratore aggiunto Paolo Ielo e anche con la disponibilità percepibile nell’”atteggiamento maturato dalla moglie in sede di indagini”.

Ma la gip Daniela Caramico D’Auria ha dovuto rassegnarsi a dichiarare il “non luogo a provvedere allo stato” per colpa della inadempienza dello Stato: che il 10 ottobre 2022, in attuazione di una delega del Parlamento del 27 settembre 2021, ha fatto sì entrare in vigore una legge che prevede che l’autorità giudiziaria possa (su richiesta dell’imputato o della vittima o anche d’ufficio) inviare le parti a “un Centro per la giustizia riparativa di riferimento”, ma a tutt’oggi dopo oltre un anno non ha ancora creato alcuno di quei Centri.

Solo il 27 luglio è stata nominata e solo il 25 ottobre si è infatti riunita per la prima volta la Commissione nazionale di esperti per i requisiti dei Centri e la formazione dei mediatori, iter che nei vari distretti prevede anche il ruolo di conferenze locali partecipate da rappresentanti di ministero, enti locali, vertici giudiziari e avvocati.

La conseguenza è una doppia discriminazione. La prima sta nel fatto che, benché nella legge in vigore stia scritta anche la possibilità in taluni casi (come questo) di far derivare dall’esito positivo di un percorso riparativo una favorevole conseguenza processuale per l’indagato, proprio l’assenza dei centri previsti dalla legge impedisce al padre in questione di potersene giovare. Ma il secondo corto circuito ancor più iniquo è che intanto altri (come a Busto Arsizio l’uomo condannato per l’uccisione di Carlo Maltesi) stanno invece venendo avviati a eventuali programmi di giustizia riparativa nelle sole tre regioni (Emilia Romagna, Lombardia e Puglia) dove enti locali, magistrati e avvocati, per superare l’impasse, hanno sottoscritto protocolli per riconoscere come adeguati alcuni dei mediatori esistenti già prima della legge.

Soluzione comunque controversa, come mostra l’ordinanza con cui il Tribunale di Genova l’altro giorno ha giudicato “non previsti da alcuna norma” questi protocolli “della cui rispondenza al dettato normativo si ha ragione di dubitare”, e che comunque per i giudici liguri Cascini-Vinelli-Crucioli “non possono rispettare il sistema introdotto dalla normativa” neanche transitoria.

E il ministero che dice? Una cosa, ma anche il suo contrario. Con la circolare 6/2023 di “chiarimento”, avvisa i magistrati che “in forza della normativa” (e dunque dell’assenza dei centri) “allo stato non possono essere intraprese iniziativa a cura dell’Amministrazione”, ma aggiunge una postilla: “È però opportuno ricordare che esperienze di altra natura, fondate su prassi o discipline di settore previgenti al decreto, possono continuare a essere seguite”.

È insomma il caos. Destinato peraltro a crescere se, come già fanno intendere di essere orientati i giudici di Genova nella loro decisione, a essere messo in discussione davanti alla Corte Costituzionale potrebbe in futuro essere addirittura il cuore stesso della legge: il collegio ligure anticipa infatti che lo ritiene in contrasto con la direttiva europea 2021/29/Ue laddove “non prevede la necessità del consenso della vittima, non indica la necessità che l’autore dei fatti li abbia “perlomeno” riconosciuti, e non assume come essenziale lo scopo di tutelare “soltanto” l’interesse della vittima”.