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di Lorenzo Cremonesi

Corriere della Sera, 16 maggio 2022

La Milano degli Anni 50, le mobilitazioni del ‘68, il terrorismo. E poi il conflitto del Kippur, l’Afghanistan, la Siria, la Libia, l’Ucraina. L’inviato del Corriere racconta pezzi di Storia intrecciandoli con la propria storia personale. Per rispondere a una domanda. Che senso ha cercare sempre la prima linea?

Per oltre quarant’anni ho raccontato guerre. Ho studiato su libri e pubblicazioni che ne parlano; ne ho seguito le cronache; ho intervistato politici, strateghi e generali coinvolti. Soprattutto ho cercato di vederle in diretta, senza veline: dure, spietate, distruttive, caratterizzate molto più da violenze e soprusi che non da atti di generosità o solidarietà. Sono vissuto a lungo nei conflitti, trascorrendo interminabili stagioni tra i soldati, spesso al fronte, più ancora con le popolazioni colpite, negli ospedali, assieme ai profughi, cercando di comprendere le loro ragioni, spiegarle, immedesimarmi. Tutto ciò mentre in Europa si magnificava questo periodo come uno dei più pacifici nella storia del nostro continente. Il che è vero, specie se lo raffrontiamo con la catena di orrori che segna la prima metà del Novecento; tuttavia, ho sempre continuato a pensare che la guerra abbia segnato la formazione della mia generazione e che persista incombente alle nostre porte: dunque non poteva e non può essere ignorata, né tanto meno rimossa.

La guerra è parte integrante delle vicende umane, anche i periodi più tranquilli ne sono condizionati e, in fondo, minacciati. Come ha ben sottolineato Margaret MacMillan, storica d’origine canadese docente all’università di Oxford, nel suo libro War. Come la guerra ha plasmato gli uomini (Rizzoli, 2021): “La guerra non è un’aberrazione, bensì rappresenta lo stato normale delle cose. Se non capiamo quanto è interconnessa con la società perdiamo una dimensione importante della storia... Non a caso ne abbiamo paura, eppure ne siamo anche affascinati...”. (...) I conflitti armati sono orribili, fomentano odio, cattiveria e disperazione; creano devastazione e morte. Per di più, in genere, risulta molto difficile arginarli. L’abitudine a premere il grilletto diventa vizio: è più semplice perseverare che non smettere.

L’idea della possibilità di uccidere o rimanere uccisi s’incista nelle mentalità collettive, il ricorso alla violenza cessa di essere un tabù e assurge alla categoria di eventualità contemplata. Alla fine di un conflitto ne sorgono sovente di nuovi, subdoli, carsici, intricati, magari più sanguinosi e deleteri del precedente. Gli esseri umani concentrano intelligenza, energie e sentimenti per fini distruttivi, oppure per salvare sé stessi e i propri cari. Uno spreco assurdo. Ma allora che cosa mi ha spinto, già dagli anni Settanta del secolo scorso, a dedicare il mio lavoro di giornalista e la mia stessa esistenza (a costo sovente di metterla a rischio) al racconto dei conflitti? Se cerco i motivi, mi accorgo che devo partire dalle origini, dalla mia famiglia, dai primi anni di scuola sino all’università. E ritrovo elementi collettivi che coinvolgono in maniera più o meno diretta le attuali popolazioni europee. Uno di questi è il modo di rapportarsi con la violenza e con la morte.

Lessico familiare e valori di riferimento - Sono temi strettamente correlati al tempo di guerra, tornati di tanto in tanto di attualità anche durante la lunga fase di pace seguita al 1945. Ho capito presto, da giornalista, quanto i miei valori di riferimento fossero fondati sui racconti familiari delle due guerre mondiali e poi rielaborati negli anni dei movimenti studenteschi. Mentre scrivevo questo libro mi sono anche reso conto che sono trascorsi due decenni dagli attentati alle Torri Gemelle, circa quattro dal mio primo reportage di guerra nel Libano invaso dagli israeliani e circa mezzo secolo dalle lotte cui partecipai come studente. Sono periodi più lunghi che non quelli che separavano la mia data di nascita dalla fine dei conflitti mondiali, che da adolescente mi sembravano preistoria, sebbene tanto attorno a noi parlasse ancora di essi. Infatti non mi stupisco quando, recandomi nelle scuole per tenere conferenze, incontro studenti che non hanno mai sentito parlare di Yasser Arafat, o non hanno idea di cosa avvenne al tempo della Guerra del Golfo nel 1991. Personaggi e fatti che ho seguito da reporter, e che restano nella mia memoria come pietre miliari della contemporaneità, sono per le nuove generazioni parte di una storia che non appartiene al loro vissuto. Eppure ha contribuito a formarlo e va dunque ricordata, perché conoscerla aiuta a comprendere chi siamo.

Distratti e inconsapevoli - Il mio è un lungo viaggio, dall’Italia cosparsa dalle macerie dei conflitti mondiali alle mobilitazioni del ‘68 e alle violenze degli “anni di piombo”, dall’Israele segnato dal conflitto del Kippur conosciuto da ragazzo sino ai fronti più caldi tra il Medio Oriente e l’Afghanistan, al terrorismo, alle repressioni di brutali regimi dittatoriali, al precipitare di Siria e Libia nel caos dopo le “primavere arabe”. Distratti e inconsapevoli, sovente pensiamo (ci illudiamo) di essere ormai immuni dai conflitti, come se il caos della battaglia non ci riguardasse più e fosse appannaggio d’altri. Ma la guerra, con le sue distruzioni e stragi, sta nel nostro Dna e nel mondo attorno a noi. Se non la riconosciamo, se non la rileggiamo per quello che è stata, cogliendone le tracce nel contemporaneo, rischiamo seriamente di tornare a esserne vittime: oggi più che mai, con lo svanire degli equilibri sorti dopo la fine della Seconda guerra mondiale, in un mondo sempre più multipolare, dove il caos dei variegati interessi affievolisce il ruolo dell’Onu e mina la speranza di poter risolvere pacificamente i conflitti.

La consapevolezza del valore della democrazia - Dove cresce il senso di incertezza e di fragilità, e s’indebolisce la consapevolezza del valore della democrazia. Da giornalista, assisto al braccio di ferro sempre più serrato tra Paesi liberi e totalitarismi, tra governi eletti che garantiscono il dibattito, la critica, l’indipendenza dei media (perfino l’imporsi confuso e chiassoso dei social) e invece le nomenklature intolleranti che dominano con la forza, gli assassinii mirati degli oppositori, l’ingiustizia e il sopruso. La guerra è alle nostre porte, ma non sappiamo che fare. Ci manca una cultura della difesa attiva dei nostri interessi. Appare evidente in Libia, in Siria, nel confronto con Egitto e Turchia, ma anche di fronte al braccio di ferro tra Washington e Pechino, alla politica espansionistica russa.

Gli Usa non si batteranno più al nostro posto - Le maggiori crisi internazionali vedono un’Europa imbelle, passiva, impotente. Gli Stati Uniti non si batteranno più al nostro posto, o sono sempre meno disposti a farlo. Più rapidamente lo capiremo e prima impareremo a difenderci da soli, se non vogliamo essere sopraffatti. Questo, anche questo, ci hanno insegnato gli ucraini aggrediti da Vladimir Putin. Sono alcune tra le riflessioni che motivano il mio racconto, ambientato tra le crisi belliche del Novecento e del nuovo Millennio, compresa quella “guerra” di cui si parlò allo scoppio della pandemia del Coronavirus, quando l’incubo della morte collettiva fece irruzione nelle nostre case col diffondersi del Covid-19. Ritengo che quello sia stato un parallelo fuorviante. Mi pare anzi che proprio la poca familiarità con la guerra, la mancanza di esperienze dirette con i suoi orrori, ci induca a nominarla a sproposito. Detto in altro modo: credo che la rimozione dei conflitti, l’aver dimenticato il nostro passato, ci abbia portato a non saper più dare il giusto nome alle cose.

Illusi di vivere una pace che non c’è - Vediamo la guerra dove non c’è, così come (più spesso) ci illudiamo di vivere una pace che tale non è; non sapendo riconoscere e comprendere l’una e l’altra, ci lasciamo guidare dai timori del momento, incapaci di tracciare una genealogia degli eventi. Invece, capire da dove veniamo può aiutarci a ritrovare, con il senso del presente, anche i valori e le passioni che ci possono orientare. Da ragazzino fui grato a coloro che mi raccontavano gli eventi che avevano vissuto in prima persona. Anche per questo ho avvertito l’urgenza di narrare a mia volta. Il mio lavoro mi ha garantito negli anni una serie di palcoscenici unici nel loro genere: rievocare, testimoniare, ricordare fanno parte del processo di passaggio da una generazione all’altra e mi piacerebbe potervi contribuire.