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di Flavia Perina

La Stampa, 25 febbraio 2023

L’impegno civico come antidoto alla violenza, la generosità verso gli altri come stile alternativo alle lezioni di violenza che si impartiscono in certe case, in certe famiglie, in certe strade, e “addirittura nei giorni scorsi davanti a una scuola contro i ragazzi”.

Il presidente Mattarella ha pronunciato ieri le parole giuste per raddrizzare il carro del dibattito sulla scuola, mandato fuoripista dalle reazioni del ministro leghista Giuseppe Valditara alla lettera della preside Annalisa Savino agli studenti del Liceo Michelangiolo, dopo l’aggressione davanti ai cancelli dell’istituto.

Il Presidente della Repubblica parlava alla annuale cerimonia per gli Alfieri della Repubblica, l’onorificenza riservata agli under-18 che si sono distinti per modelli positivi di cittadinanza. Era un discorso scritto per i ragazzi ma forse un po’ anche per Valditara, che sedeva in prima fila insieme ai colleghi della Sanità e dello Sport. Ci ha ricordato come dovrebbero parlare le istituzioni quando maneggiano materiali incendiari come l’adolescenza e la sua idea di politica, di conflitto, di passione ideale, e tutto ciò che ruota intorno alla stagione in cui, come diceva Guccini, “si è stupidi davvero”.

I ministri della scuola italiani non hanno mai brillato di acume in questo tipo di rapporto, dividendosi tra i fanatici della carota e quelli del bastone. Valditara appartiene senza dubbio alla seconda categoria fin dall’esordio, segnato dalle dichiarazioni sull’importanza dell’umiliazione “come fattore fondamentale della crescita e della costruzione della personalità”. In soli quattro mesi è arrivato alla censura tramite intervista tv di una preside che ha scritto cose che non gli piacciono, con un avvertimento piuttosto minaccioso a chi pensa di seguire la stessa strada. Il silenzio agghiacciato dei colleghi di governo, di partito e di maggioranza ci racconta che popolarissimo non è neanche tra i suoi, e non potrebbe essere altrimenti: il valditarismo, per come lo abbiamo visto fino ad ora, porta alla luce una contraddizione profonda della destra, che esiste fin da quando - ai tempi miei - il “professore fascista” della classe era detestato pure dagli studenti che votavano come lui perché spietato nelle interrogazioni, spesso trombone e grandissimo bocciatore.

Oggi l’anatema di Valditara contro la “politicizzazione che auspico non abbia più nessun ruolo all’interno delle scuole italiane” risulta stridente nel confronto con una classe dirigente (specialmente quella di FdI) che ha vissuto l’impegno politico a scuola come essenziale passaggio formativo, che a scuola ha fatto politica, eccome, rivendicando diritto di parola e di assemblea anche quando rappresentava una minoranza invisa a tutti, portatrice di idee giudicate assolutamente scombinate. La narrazione degli underdog si è formata esattamente lì, nei licei, difendendo il diritto di parola e di impegno nel contrasto con i professori, i genitori e ogni adulto che diceva: pensa agli affari tuoi, non ti impicciare, studia, divertiti, non metterti a rischio di finire rimandato a settembre per un tema sghembo o una discussione troppo accesa. E capirete che è difficile tenere insieme storie così con un ministro che invece di criticare la violenza (come sarebbe stato ovvio) o scegliere la via del silenzio (come pure era possibile), decide di parlare in tv per prendersela con la preside “che fa politica”, rovesciando l’algoritmo che a tutti pare naturale: nella scuola si può dire, pensare, scrivere quello che si vuole, ma le mani non si alzano, i calci non si danno, i pugni non si usano.

È questa l’equazione che il presidente Mattarella ha rimesso a posto, indicando “prepotenza, sopraffazione e violenza” come i primi nemici della società italiana e facendo riferimento all’aggressione di Firenze come esempio da respingere senza se e senza ma. È un’equazione che pure il ministero dell’Istruzione e del Merito dovrebbe riaggiustare con intelligenza, anche in considerazione del fatto che l’ultima cosa che serve non solo al Paese ma anche all’esecutivo è il riaccendersi di una protesta studentesca che scenda in strada gridando “governo fascista”. È vero che l’espressione è stata usata quasi per ogni ministro della Scuola, da Franco Maria Malfatti a Fabio Mussi, e riciclata contro ogni governo ostile alle piazze studentesche compresi quelli di Giuliano Amato e Massimo D’Alema, ma la destra di oggi, la destra che lavora per affermarsi come forza pienamente democratica, può permetterselo assai meno dei suoi predecessori.