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di Eraldo Affinati

La Stampa, 13 giugno 2023

Malgrado la buona volontà di tutti, gli esami assomigliano ancora a dei tribunali. Da tanti anni ormai gli esami di Stato, un tempo chiamati di maturità, che si svolgono al termine degli studi medi superiori, hanno perso, se mai l’hanno avuto, il carattere selettivo da molti auspicato, da altri contrastato: un po’ in ragione di quanto raccontano i numeri (stando alle statistiche, quasi tutti gli scolari ammessi all’esame vengono promossi), un po’ perché le prove conclusive rappresentano l’esito scontato di un percorso già compiuto, bisognoso soltanto di un riscontro formale: la discussione all’interno delle commissioni, tranne rarissimi casi di “scena muta” o assenza da parte del candidato, verte unicamente sulla votazione da assegnare agli studenti. Ciò non toglie che questi ultimi, come ben sappiamo, patiscano ancora la ritualità degli scritti e degli orali, vivendo con ansia apparentemente immotivata i giorni del rendiconto finale.

Stiamo parlando pur sempre di adolescenti per i quali il giudizio, di qualsiasi tipo, chiunque lo formuli, costituisce un rischio e una minaccia incombente sulla difficile strada verso la maggiore età, spirituale prima ancora che anagrafica. Non sono pochi i tristi ricordi al riguardo conservati sotto chiave nella memoria di alcuni fra noi. Mortificazioni, arroganze e frustrazioni, quasi inevitabili in presenza della discrezionalità da parte del corpo docente, sembrano purtroppo assai frequenti quando ci si pone di fronte al maturando: sebbene si tratti di una patetica messinscena, in quanto gli insegnanti sono per quasi la metà gli stessi che hanno seguito i ragazzi almeno nell’ultimo anno scolastico, è come se il giorno del fatidico colloquio scattassero negli attori chiamati in causa dei meccanismi di comportamento prestabiliti legati al sistema che legittima il valore giuridico del diploma assegnato e conseguito. Con tutta la buona volontà delle persone coinvolte, si sente il peso del tribunale che deve esprimere il verdetto: quanto di più lontano dalla naturalezza propria della dimensione educativa.

Personalmente ho sempre vissuto con grande disagio questa sensazione, prima da studente, quando, dentro di me, rifiutavo l’idea stessa di essere sottoposto a una prova esterna di cui non condividevo il criterio, poi da professore, nel momento in cui, durante l’anno, uniformavo tutti i voti al cinque o al sei, allo scopo di non dare troppa importanza al punteggio. Se venivo nominato commissario esterno agli esami, mi piaceva rovesciare le attese dei ragazzi (e ancor più quelle degli adulti che si presentavano come privatisti): secondo il mio ruolo, avrei dovuto incutere soggezione, invece sin dal giorno della prima prova scritta cercavo di entrare in confidenza con loro, dando consigli non richiesti pur di metterli a proprio agio. Cosicché in poche ore potevo arrivare a conoscere le storie di ognuno più di quanto fosse stato disposto a fare il docente interno che in teoria avrebbe dovuto presentarmeli.

Era il mio modo di sabotare l’esame che consideravo sbagliato, inefficace, ingiusto. Sbagliato perché confermava l’antica contrapposizione fra insegnante e discente minando sul nascere la reciproca fiducia che entrambi avrebbero dovuto conquistare l’uno a vantaggio dell’altro. Inefficace in quanto domande e risposte non riuscivano a staccarsi da una sfera odiosamente artificiale, in conseguenza della quale l’esaminando si mostrava preoccupato solo di corrispondere alle attese del suo interlocutore, pronto a modificare in tempo reale le proprie opinioni se queste non fossero state accolte come dovevano. Ingiusto perché schiacciava i saperi e le sensibilità e i caratteri di ognuno secondo standard di valutazione falsamente oggettivi, dimenticando che ogni apprendimento ha una forma e un tempo unico e la stazione di partenza dello scolaro è fondamentale quanto il traguardo che egli deve raggiungere. Non avevo ancora letto ciò che, a tale proposito, scrisse il giovane Lev Tolstoj, ma era come se lo tenessi già a mente: “Il ginnasiale studia la storia, la matematica, e, ancor più importante, “l’arte di rispondere agli esami”. Io considero quest’arte un’inutile materia di insegnamento” (Per una scuola viva, per una scuola vera, edizioni e/o, 2020).

Sognavo una scuola senza voti, senza classi, senza esami, senza burocrazie, senza diplomi, senza giudizi, come l’aveva declinata ad esempio Ivan Illich, uno dei più grandi maestri del Novecento, e diversi altri e altre insieme a lui, pur sapendo quanto fosse impossibile realizzarla nella realtà di questo mondo, anche nella consapevolezza che il cosiddetto impianto dell’istruzione, così com’è e non come vorremmo che fosse, non si può liquidare con disinvoltura, essendo una delle più importanti invenzioni umane, inesistente in natura, allo stesso modo del matrimonio, della famiglia e dei codici giuridici, la cinghia di trasmissione del sapere - per dirla in breve - da una generazione all’altra: chiunque cedesse, per amore di paradosso o inquietudine anarchica, alla volontà di cancellazione dell’aula col suo magico e a parere di molti obsoleto trittico (spiegazione-interrogazione-voto), dovrebbe poi sobbarcarsi il compito di illustrarci la maniera in cui procedere e non sarebbe, dobbiamo giocoforza ammetterlo, un compito di poco conto. È più facile criticare che costruire.

Detto questo, sapendo di dover accettare un certo grado di ipocrisia culturale e un’altrettanto notevole dose di convenzionalità sociale, in nome del migliore degli universi possibili, non possiamo neppure arrenderci al piccolo teatrino degli esami come sono spesso ridotti ora con le formulette imparate a memoria, recitate alla maniera di parti in commedia, dei riassunti tematici che aggirano il testo, delle mappe concettuali in sostituzione dei ragionamenti complessi. Dimmi cosa vuoi che io ti ripeta e lo farò: il contrario di ciò che dovrebbe essere lo spirito critico. Urgono interventi legislativi per modificare perlomeno questo deplorevole andazzo. Senza fare la rivoluzione, ma cercando, nel nostro piccolo, di essere più seri.