sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Mauro Palma

La Stampa, 6 febbraio 2024

Il viaggio della Corte costituzionale al suo esterno, nelle scuole e poi anche nelle carceri, è stato l’emblematico messaggio del valore di una Carta non solo aperta a tutti, come è ovvio che sia, ma che deve essere percepita come vicina, dialogante. La Corte ha così indicato che il proprio controllo sulle leggi non è materia riservata ai giuristi, ma è parte di un percorso di crescita culturale che riguarda tutti; anche coloro che possono percepirsi - a volte comprensibilmente - ai margini.

Questo percorso non si arresta con la fine delle visite. Continua con altri strumenti e la discussione attorno a un libro nato da quell’esperienza appartiene proprio a tale cammino e deve essere sviluppata a diversi livelli e in più luoghi, inclusi quelli meno visibili come le carceri. Per questo, tessere un dialogo tra chi ha vissuto tale esperienza da giudice costituzionale o da promotore del progetto e chi è direttamente o indirettamente coinvolto nell’esecuzione penale, perché ne ha la responsabilità amministrativa, perché è a essa soggetto o perché esercita su di essa una vigilanza significa contribuire al naturale prosieguo di quell’originaria intuizione. Un dialogo che si sviluppa attorno a un libro, quello recente di Giuliano Amato e Donatella Stasio.

Un libro è sempre uno strumento formativo e discutere attorno a esso è di per sé una crescita per tutti, soprattutto in un luogo emblematico della complessità sociale, quale quello dove la libertà è negata. Ma in particolare il suo titolo Storie di diritti e di democrazia lo pone ancor più al centro di quel necessario dibattito che dà alla parola stessa “formazione” un significato effettivo; anche quando, forse, tale dibattito non sia stato previsto in qualche modulo di programmazione della formazione stessa. Non solo, la seconda parte del titolo che ricorda l’esperienza di quel viaggio dei giudici fuori del palazzo, La Corte costituzionale nella società, esprime proprio quella continuità che rende non episodica quell’esperienza, ma la pone come un “mattone” di una costruzione democratica.

E allora perché parlarne? Perché per la seconda volta l’Amministrazione penitenziaria non ha colto questo valore e ha fermato la prevista presentazione del libro. Questa volta nel carcere di San Vittore, dove tutto era pronto e anche l’interesse di interlocutori istituzionali era evidente. Precedentemente anche in Campania e avevamo letto con stupore che l’iniziativa prevista non era stata debitamente inserita nel Parf - cioè il piano formativo, maledetti acronimi - di quella regione e che inoltre l’iniziativa non appariva “inseribile in un quadro coordinato e coerente di attività formative” della dirigenza penitenziaria. Era stata una prima sorpresa, ma la si poteva leggere come un’istanza di coordinamento delle diverse attività che i Provveditorati regionali dell’Amministrazione penitenziaria programmano.

Ora un secondo stop alla presentazione di questo libro, questa volta imminente, in un carcere che ha sperimentato negli anni molte iniziative, fa sorgere la domanda se non sia il libro stesso a provocare qualche problema, a far alzare qualche sopracciglio. Conoscendo la sensibilità del capo dell’Amministrazione non penso che questa ipotesi abbia per lui un elemento di realtà, ma conoscendo le spinte riduttive che attualmente avvolgono dibattito e pratiche attorno alla detenzione e al carcere penso che ci possano essere elementi al contorno che invece ne suffraghino la consistenza. Vietare per due volte di discutere dello stesso libro ha un triste sapore, in parte di censura, in parte di incultura, in parte di formalistica burocrazia. Tutti ingredienti da rifiutare proprio in questo momento di difficoltà del carcere per chi vi è ristretto, per chi vi lavora, per chi si sforza di orientare sempre più l’esecuzione penale nel solco costituzionale.