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di Alessia La Villa*

Ristretti Orizzonti, 17 settembre 2023

Il suo nome era Cerutti Gino, ma lo chiamavan drago. Gli amici al bar del Giambellino dicevan che era un mago”. Alzi la mano chi non ha mai canticchiato almeno una volta nella vita questa ballata che l’inconfondibile voce del compianto Giorgio Gaber ha consegnato alla storia della musica leggera italiana. Siamo nella periferia milanese degli anni 60, quella del Giambellino. Il Cerutti Gino ha appena vent’anni, quello che oggi definiremo un giovane adulto. Non ha una lira in tasca e trascorre le sue giornate con gli amici al bar. La storia ce lo consegna come un tipo scaltro sopranominato appunto “il drago”, uno bravo a mettere a segno il colpo giusto al momento giusto, un “mago”.

Ma il Gino suo malgrado una sera si scontra con l’imprevisto, con la sfortuna. Qualcuno decide di chiamare le forze dell’ordine, “la madama”, e in men che non si dica il giovane lascia il bar per una cella “del terzo raggio”.

Come in una sequenza cinematografica, Gaber ci porta all’interno del carcere di San Vittore dove il Cerutti è “triste e un poco manomesso” mentre aspetta il “suo processo”.

Arriva però l’ennesimo colpo di scena, il giudice decide di farlo uscire con il “condono”, non prima di avergli fatto le raccomandazioni del caso.

Ed ecco la conclusione straordinaria e quanto mai attuale: cosa accade dopo che il Gino ha vissuto in prima persona l’esperienza del carcere? Cosa diranno adesso gli amici di lui?

La risposta, contrariamente ad ogni possibile aspettativa, è che la sua fama di “eroe del Giambellino” ne esce rafforzata: “È tornato al bar Cerutti Gino e gli amici nel futuro quando parleran del Gino diran che è un tipo duro”.

Il carcere, dunque, sembra non aver avuto alcuna capacità deterrente per questo giovane delinquente e per i suoi amici e con buona pace di ogni possibile teoria sulla stigmatizzazione e sull’etichettamento non fa altro che rinforzare un’identità dove i valori sono completamente ribaltati.

Impossibile a questo punto non pensare al decreto Caivano e all’ingenuità nel voler ritenere la detenzione e l’inasprimento delle pene una misura efficace per ragazzi che sfidano tutti i giorni le regole del vivere sociale convinti che il carcere non solo faccia parte del “pacchetto” ma che, come per il Gino degli anni 60, contribuisca a renderli ancora più popolari.

Se dopo il carcere si torna al Giambellino, allo Zen, a Caivano, a San Basilio, solo per citare alcuni tra i quartieri più tristemente noti alle cronache, se si torna lì dove si viene celebrati come eroi, lì dove tutto dovrebbe cambiare ma nulla cambia, che cosa abbiamo risolto?

Nulla. Non è mettendo dietro le sbarre il Cerutti Gino che possiamo pensare di affrontare il problema della criminalità minorile ma solo trovando il coraggio di investire sull’educazione degli “amici del bar del Giambellino”, su quella comunità che deve essere in grado di trovare parole nuove per raccontarsi e raccontare.

Il Gino ha solamente bisogno di avere un’alternativa a tutto quello che ha sperimentato fino a questo momento e questa alternativa la possiamo costruire solo avendo il coraggio di investire sull’essere in quanto umano, solo avendo il coraggio di essere proprio lì dove tutto sembra più difficile e complicato, non avendo paura di entrare in tutti i bar del Giambellino che troveremo sul nostro cammino alla ricerca di tutti i Cerutti Gino che aspettano solo qualcuno che sappia essere la differenza oltre qualsiasi decreto.

*Funzionario Giuridico Pedagogico presso la C.C. di Livorno, autrice del testo: “Metà giardino, metà galera. Le parole del carcere nella musica italiana”