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di Dacia Maraini

Corriere della Sera, 10 luglio 2024

Matteo, 23 anni, Stefano 26 anni, Alam 40 anni, Fabrizio 59 anni, Mohamud 38 anni, Andrea 33 anni, Jeton 34 anni, Ivano, 35 anni, Sasha 38 anni, Carmine 22 anni, Sylla 22 anni, e non nomino gli altri per mancanza di spazio. Questi uomini si sono suicidati in carcere e noi tutti dobbiamo sentirci responsabili. In Italia non esiste la pena di morte, ma questi dati ci dicono che la stiamo applicando. E senza processo o condanne.

Quando un fenomeno si ripete così spesso non possiamo più parlare di un caso di depressione, di un momento di follia, di un innamorato deluso, di un drogato in overdose. Quando in un periodo di pace si contano nei primi mesi dell’anno già 70 suicidi nelle galere del Paese, ricordando che nel 2023 sono stati 80 in tutto l’anno, siamo obbligati a parlare di un sistema che non funziona e va corretto, anche al più presto, perché non si può giocare con la vita delle persone.

Il paradosso sta nel fatto che proprio il nostro Paese che è stato fra i primi a esprimere geniali personaggi come Beccaria e Basaglia, sia oggi il più arretrato nell’applicare le loro rivoluzionarie teorie. Cesare Beccaria ha fatto capire a tutto il mondo quanto il carcere come luogo di punizione che esprime solo voglia di vendetta sociale sia ingiusto, e Franco Basaglia - anche lui in anticipo sui tempi e punto di riferimento per il mondo intero - ha dimostrato che la follia non è una menomazione definitiva, ma una malattia da guarire con comprensione, gentilezza, cure non solo chimiche ma di responsabilità e libertà. Aggiungerei fra i grandi rivoluzionari anche Altiero Spinelli e il gruppo di antifascisti che hanno teorizzato una Europa libera e unita. Perfino il bei progetti di Ventotene che ci hanno dato pace e sviluppo sono oggi messi in discussione con incoscienza.

I tanti suicidi ci fanno capire che il carcere è diventata una condanna a morte e ciò va contro ogni nostra conquista legale. La prigione dovrebbe essere il luogo dove una persona impara a riflettere su se stessa, sul mito della violenza e delle armi che lo hanno portato a semplificare il linguaggio delle relazioni umane. Il carcere dovrebbe essere il luogo dove si impara un mestiere e si assimila l’abitudine di relazionarsi in modo costruttivo e pacifico con gli altri e non solo uno spazio angusto di forzato ozio che suscita pensieri lugubri.

Ho fatto diversi seminari nelle carceri romane assieme al gentile e innovativo magistrato Vincenzo Anania parlando di libertà e di poesia. E ho avuto modo di constatare che molti detenuti, esclusi quelli talmente attaccati ai propri vizi interiori da essere diventati di pietra, ma coloro che sono più disponibili al cambiamento, si trasformavano comprendendo la forza delle parole e del pensiero creativo. Le armi sono un linguaggio con cui molte persone pensano di risolvere i problemi che li angosciano. Ma le armi semplificano la realtà: il mondo si riduce ad amici da proteggere e nemici da distruggere. Ogni rapporto di conoscenza, di confronto, viene interrotto. Mentre la parola è pontifex, ovvero costruttrice di ponti. La parola come espressione di un pensiero autonomo conduce alla ragione, alla chiarezza della logica, alla curiosità dubitativa.

Per questo aiuta a maturare, a diventare responsabili, mentre le armi portano alla semplificazione e alla divisione. I fucili e le bombe dettano la legge del più forte. Mentre la parola espressiva non cerca vincitori ma confronti, alleanze, metodi di convivenza civile.