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di Mauro Palma*

La Stampa, 12 agosto 2023

L’hanno classificato “decesso per cause naturali”, ma la definizione appare incongrua nel caso di una persona, quale la signora Susan John, nigeriana di quarantatré anni, che ha condotto fino all’estremo la sua protesta rifiutandosi, dallo scorso 22 luglio, di mangiare, bere, prendere qualsiasi terapia e anche di essere ricoverata in ospedale.

È deceduta la scorsa notte dopo aver nuovamente perso i sensi come era già accaduto nell’ultima settimana: anche in quelle occasioni - riportano i necessariamente freddi bollettini del carcere torinese dove era ristretta - aveva sempre rifiutato ogni intervento nonostante “i tentativi a tutti i livelli finalizzati a convincerla ad alimentarsi nonché della necessità di essere ricoverata presso un ospedale esterno”.

A Torino, nell’Istituto “Lorusso e Cutugno”, più comunemente noto come “le Vallette”, era giunta proprio il 22 luglio, con una condanna a dieci anni che sarebbe durata fino al 2030. Da subito aveva iniziato il rifiuto di ogni tipo di alimentazione, pur non esplicitando una motivazione, se non quella, forse, di una vita che vedeva nella detenzione un terribile e soggettivamente ingiusto punto di arrivo.

Il carcere non aveva ritenuto di chiedere un aiuto ai Garanti territoriali che pure frequentemente sono presenti. Eppure qualche problema deve esser sorto all’attenzione medica poiché era stata posta nella “Articolazione per la tutela della salute mentale” e si sa bene quanto impegnative e difficili siano le parole “tutela” e “salute” incise in questa denominazione: la prima perché implica quell’attenzione e quella protezione che numeri elevati, routine e spesso difficoltà comunicative, in particolare con persone straniere, rendono di evanescente effettività; la seconda perché l’implicito tentativo di costruire quel minimo di ben-essere nel luogo del mal-essere che tale parola comporterebbe, contrasta con la difficile relazione tra amministrazioni, con il bisogno crescente di supporto psichiatrico in carcere e con la scarsa disponibilità di operatori.

Non si deve però indugiare sulla ricerca di responsabilità individuali, accerterà la magistratura lo svolgersi degli eventi. Piuttosto occorre interrogarci sulla responsabilità collettiva relativamente sia alla fisionomia del carcere, che rischia di divenire un luogo di mera restrizione, percepito di assoluto non ritorno da parte di chi vi giunge, sia alla drammaticità della forma estrema di comunicazione di chi non ha altra voce per urlare, se non quella del proprio corpo. Un corpo anche da distruggere per poter dire.

Sono due aspetti che si richiamano l’un l’altro e che si sono accentuati nell’ultimo periodo perché è sempre più diffusa un’idea di meritevolezza del castigo per chi ha sbagliato che porta a isolare il carcere da una progettualità positiva, a svincolarlo sempre più dal ritmo della vita esterna e che incide anche in modo grave sulle condizioni di chi vi lavora.

Sembra chiudersi quello spiraglio che indirettamente si era aperto nel difficilissimo periodo del rischio pandemico e che aveva portato a maggiore relazione telefonica e comunicativa con i propri affetti, all’introduzione positiva di talune tecnologie e a una timida prevalenza del diritto alla tutela della salute rispetto alla fissità dell’esecuzione penale: tutti i temi su cui si rischia di tornare indietro in questo periodo, anche sulla scia della maggiore difficoltà interpersonale interna che si esplicita in aggressioni, vere, gravi, ma anche enfatizzate. Le esperienze positive - pur esistenti e significative - sfumano come variabili di sfondo.

È proprio in questo contesto che può affermarsi la percezione della propria condizione soggettiva dell’essere detenuto come mera corporeità ristretta. Il corpo, soprattutto per chi ha minori strumenti interpretativi e comunicativi o per chi sa di non essere ascoltato diviene l’assoluta espressione linguistica: non solo nel tagliarsi, nel mutilarlo, anche nel renderlo strumento della propria richiesta e a volte del proprio desiderio di urlare. Occorre con urgenza e da parte della collettività saper dare una diversa direzione a questa deriva: Susan John è la terza persona che muore in carcere in sciopero della fame; altre due persone sono decedute ad Augusta nei mesi scorsi e i loro “decessi per cause naturali” erano passati quasi inosservati; mentre un’altra persona detenuta porta avanti la sua protesta ormai da mesi nel carcere di Sassari, in regime speciale. Intanto il triste contatore comunica il quarantaduesimo suicidio nell’anno. L’ultimo, poche ore dopo, Susa, sempre a Torino, un’altra donna.

*Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale