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di Vladimiro Zagrebelsky

La Stampa, 28 settembre 2023

Quando nel 2015 venne in pompa magna presentato l’Accordo di Parigi sul clima, per il contrasto all’aumento del riscaldamento globale mediante la riduzione delle emissioni dei gas ad effetto serra, poteva credersi che gli oltre 170 Paesi sottoscrittori avessero preso un impegno capace di avere concreti e condivisi impegni; che cioè si assistesse ad una svolta irreversibile, coinvolgente il mondo intero. Pur non mancando ora alcuni provvedimenti ed effetti concreti, le difficoltà, i contrasti e le marce indietro sono importanti. Sono di questi giorni i rallentamenti annunciati dal governo britannico rispetto agli obiettivi di raggiungimento del traguardo di zero emissioni. E i rigorosi programmi dell’Unione europea sulle scadenze dell’obbligatorio passaggio alla produzione di sole automobili elettriche e a zero emissioni di Co2 ed altri gas, dopo le vivaci reazioni da parte di diversi governi sono stati seguiti da significative retromarce. Intanto i progetti di sfruttamento dei giacimenti di litio in Portogallo, utili per la produzione in Europa delle batterie elettriche, hanno dato luogo a vivaci proteste dei contadini per il danno ambientale che ne deriverebbe, con la distruzione di aree agricole anche di pregio ambientale.

Movimenti anti-transizione ecologica crescono in potenza, come quello degli agricoltori olandesi, importante in vista delle imminenti elezioni politiche. Esempi sparsi, tratti dalla sola cronaca recentissima. Essi rivelano la difficoltà che accompagna una linea politica che sembrava soddisfare esigenze gravi e urgenti. Il fatto è che gli sviluppi pratici della transizione ecologica hanno contrastata natura politica. I costi della transizione sono a carico di specifiche fasce di popolazione. Mentre vengono a ridursi occasioni di lavoro e di reddito, è certo possibile che se ne creino altre (come avviene per l’intervento della robotica e della Intelligenza Artificiale), ma a distanza di tempo e a vantaggio di altro personale, diverso da quello che perde il lavoro. La transizione cioè avvantaggia taluni e danneggia altri. Essa ha quindi un ovvio impatto elettorale, il quale sollecita la competizione dei partiti, fisiologica in democrazia, purché non sia sostenuta dalla falsificazione della realtà e dall’allarmismo strumentale. La lungimiranza dei politici responsabili governativi dovrebbe compensare lo sguardo corto degli elettori, ma alla fine sono gli interessi di questi ultimi a determinare gli orientamenti delle forze politiche e governative in sede nazionale e internazionale. Così, come è avvenuto recentemente in Italia, è facile limitarsi ad aggiungere all’articolo 9 della Costituzione, che la Repubblica “tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”, facendone un manifesto che soddisfa tutti. Come se per provvedere vi fosse bisogno della nuova norma costituzionale.

Succede ora che emerga una reazione alle resistenze politiche rispetto alle necessarie iniziative di transizione ecologica. Al freno che si verifica in sede governativa e parlamentare (si può supporre con l’appoggio di una maggioranza di cittadini) è ora visibile una reazione su un piano diverso. L’Unep, il Programma dell’Onu sul clima, l’ambiente e lo sviluppo sostenibile, ha recensito più di duemila procedimenti giudiziari, attivati nel mondo davanti a tribunali nazionali o internazionali, per danni derivanti dalla crisi climatica. Essi sono molto diversi tra loro, fondati come sono prevalentemente sul presupposto della violazione delle varie leggi nazionali in materia ambientale. Ma ve ne sono anche che si svolgono davanti a giudici internazionali. Così, ad esempio, davanti al Tribunale internazionale del diritto del mare è stata introdotta una procedura per sentire dichiarare che il riscaldamento dei mari è una forma di inquinamento, che, come tale, deve essere combattuto dai governi.

Ed è di questi giorni l’udienza che la Corte europea dei diritti umani ha tenuto per discutere il ricorso di alcuni ragazzi portoghesi contro 33 Paesi membri del Consiglio d’Europa (Italia compresa). Essi fanno valere che il riscaldamento globale, per le distruzioni provocate dalle tempeste e dagli incendi che da anni ormai ne derivano, mette a rischio la loro vita, produce ansie, allergie e disturbi respiratori per loro e, per la loro generazione, una vita inumana e degradante. Le conseguenze sulle loro prospettive di vita privata e di famiglia saranno discriminatorie: danneggiata sarà la loro generazione, mentre quelle odierne se ne tengono esenti. La base giuridica del ricorso è nella Convenzione europea dei diritti umani e nella giurisprudenza che ha sviluppato la Corte, nel corso degli anni. Ma cosa può fare un giudice come la Corte europea? L’applicabilità della Convenzione è già stata più volte affermata: anche nei confronti dell’Italia (ad esempio per le omissioni governative nella vicenda della c.d. terra dei fuochi o dell’Ilva).

Ma la questione sollevata dai ricorrenti in questo caso riguarda grandi disegni politici, costi economici e sociali elevanti, scelte politiche di tempi e scadenze, in una vicenda di transizione che riguarda diversamente i vari settori di popolazione. È il tipico caso in cui i governi chiedono che la Corte europea ammetta i limiti che sono propri della giurisdizione e riconosca agli Stati un “margine di apprezzamento nazionale” nell’affrontare il problema che le è sottoposto. Ne verrà allora forse una sentenza che sarà un altro documento di elevato tenore, che sottolineerà la gravità e l’urgenza della situazione. Non inutilmente esso si aggiungerà alle tante voci allarmate che pretendono iniziative concrete. Esse sono forti e ben fondate, ma alla fine, quando si arriva al dunque, minoritarie: una nuova voce, questa di carattere giudiziario, con i limiti che sono propri delle decisioni dei giudici. Rivelatrice della sfiducia nella politica, che è espressa dal ricorso dei giovani portoghesi.