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di Massimiliano Panarari

La Stampa, 3 giugno 2023

Uno dei classici della macchina dell’informazione spettacolarizzata è il “delitto dell’estate”. L’omicidio di Senago sembra averlo anticipato; così, in queste ore, si susseguono notizie, ricostruzioni e isterismi pseudoinfomativi sulla tragedia di Giulia Tramontano.

Una “perla” in questo senso (deteriore) l’ha offerta ieri il macabro e “insuperabile” riferimento da Italian horror story - contenuto in un servizio de La vita in diretta su Rai 1 - fra le mani di Alessandro Impagnatiello che, come in un fotoromanzo (o in una soap), si “muovevano sinuosamente” preparando i cocktail, e hanno tolto la vita alla ragazza incinta.

Lo citiamo come ultima tappa del (disumano) chiacchiericcio da intrattenimento dilagato senza sosta all’interno della programmazione televisiva con riferimento a quelle che il giornalismo Usa - che le ha trasformate in ghiotte occasioni di audience negli anni Ottanta - chiama “storie di interesse umano”. Dove l’interesse è puramente morboso, e il mix di modalità di funzionamento della logica mediale e concorrenza sul mercato dei mezzi di comunicazione porta a un’incessante escalation grandguignolesca.

Mentre la pietas - e pure il lavoro di inquirenti e investigatori - richiederebbe discrezione e toni bassi. Ma pietà l’è morta sotto il tritasassi dell’ecosistema mediale ibrido, dove l’inverecondo commento “manesco” di cui sopra è stato istantaneamente stigmatizzato sui social e, nondimeno, la logica di una competizione senza quartiere tra media mainstream e nuove piattaforme ha fatto saltare ogni freno inibitorio all’infotainment che racconta fatti di cronaca nera spingendo vieppiù l’acceleratore sulla spettacolarizzazione pulp e l’ostentazione oscena dei basic istincts.

“Piatto ricco mi ci ficco”, dunque, e non importa quanto viscerale sia il dolore che contiene, giocando per giunta sulla rivendicazione del “servizio” reso a un’opinione pubblica che ha il “diritto” di sapere tutto su quanto avvenuto. Pornografia, giustappunto, e l’antitesi della nozione di servizio pubblico di cui abbiamo bisogno.

Un fenomeno che viene da lontano oramai, e si intreccia con l’idea - anch’essa databile al decennio degli Ottanta - della “tv verità” che ripropone un evento senza filtri protettivi, né (ecco il compiaciuto e pericoloso equivoco) censure. E dato che le curve degli ascolti non prevedono dubbi o esitazioni, e si fondano sul meccanismo della “crescita (potenzialmente) illimitata” fino all’overdose, ecco che si può facilmente profetizzare che, in materia, al peggio non c’è (e non ci sarà...) mai fine.

Lo stiamo appunto toccando con mano - anche perché, come hanno ampiamente dimostrato gli studi comunicativi, il ruolo di gestori delle paure e delle insicurezze collettive detenuto dai media si accentua ancor più nelle fasi storiche di maggiore ansia sociale. Durante le quali la spettacolarizzazione del dolore svolge, al medesimo tempo, una funzione rituale e di rafforzamento del loro potere. Proprio quando, invece, si dovrebbe fare tesoro della massima di Ludwig Wittgenstein: “Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”.