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di Gian Domenico Caiazza

Il Riformista, 29 giugno 2024

La giustizia riparativa ha certamente rappresentato la connotazione culturale più schiettamente identitaria della intera riforma Cartabia. Inserita in una complessa - ed in verità assai apprezzabile - riscrittura del sistema della pena, messo coraggiosamente al riparo dal furioso carcero-centrismo che ispirava parti cospicue (Lega e 5S) della maggioranza del Governo Draghi, la giustizia riparativa segna però il passo oltre il confine, l’autentica rivoluzione culturale voluta da quella riforma. Ed è una rivoluzione che suscita più di una preoccupazione, più di un legittimo allarme. Ne parliamo oggi - anche raccogliendo posizioni tra di loro contrastanti - su questo numero di PQM.

Nessuno può negare il valore positivo di una spinta normativa alla “riconciliazione” tra autore e vittima del reato, ancor più se letta come alternativa all’idea di una esecuzione punitiva sterile, che lascia inutilmente sole con sé stesse, come monadi ammutolite dal loro contrapposto destino, le parti protagoniste della vicenda criminale. È feconda l’idea di incoraggiare il reo ad acquisire consapevolezza del male che egli ha fatto alla vittima, e di dargli una prospettiva di riscatto, anche rispetto alla durezza della pena che egli meriterebbe, nell’impegno a trovare la strada di una riparazione condivisa dalla parte offesa.

Ma, appunto, tutto ciò ha un senso se partiamo dalla certa identificazione del colpevole e della vittima, il che accade solo (e nemmeno sempre, purtroppo!) all’esito di una sentenza definitiva di condanna. L’azzardo di questa riforma, ossessionata dalle prescrizioni deflattive del PNRR, è aver previsto il percorso della giustizia riparativa anche prima della definizione del procedimento penale, ed anzi ai suoi albori. La qual cosa può funzionare rigorosamente e solo su base volontaria, cioè su iniziativa spontanea e autonoma dell’indagato che sappia di aver commesso il reato, e voglia adoperarsi per avviare un percorso riparativo condiviso dalla vittima.

Ma qui c’è un giudice - ed addirittura un PM! - che può dare impulso al percorso riparativo, muovendo dunque dal presupposto della fondatezza dell’accusa, che è il modo più semplice, diretto ed inequivocabile di sovvertire, nel nostro sistema processuale, la presunzione costituzionale di non colpevolezza. Hai voglia a dire che si tratta solo di un invito, che l’indagato/imputato è liberissimo di non accogliere, rivendicando la propria innocenza.

Non saprei dire se qui vi sia più ipocrisia, o più inesperienza della quotidianità delle vicende processuali. Qui abbiamo un indagato che si sente dire: se ti penti, se mostri resipiscenza verso la tua vittima (ma addirittura anche quando non c’è una vittima intesa come persona specificamente individuabile!), insomma se vuoi ravvederti, il tuo trattamento sanzionatorio ne beneficerà, io giudice mi libero di questo processo, e la collettività beneficerà di un procedimento penale in meno; valuta tu -liberamente, s’intende - l’impatto della tua indisponibilità.

Come se non bastasse questa terribile melassa penitenziale vagamente ricattatoria, il percorso riparativo sarà affidato - sissignore - ad un “mediatore”, nuova fi gura professionale della quale ancora non sappiamo nulla, se non che sia nata per escludere il difensore dell’imputato da questa cerimonia di lavacro sociale preventivo.

Chiedetevi per quale ragione l’imputato debba rinunziare, in questa fase, al suo difensore, e datevi una risposta. Io non ne ho altre che questa: se entra nella terra del riscatto, del pentimento, della riparazione, l’imputato non ha più diritti da invocare. Il difensore non solo non serve, ma - da autentico e demoniaco complice del suo assistito - vorrà piuttosto sabotare quel percorso virtuoso. Il demonio resti fuori dal regno degli Angeli.