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di Giovanni Verde

Corriere del Mezzogiorno, 17 ottobre 2023

Il provvedimento del magistrato coinvolge il nostro sistema democratico e diverse questioni giudiriche. Ed è bene interessarsi di diritto quando vi è coinvolto il nostro sistema democratico. Nella vicenda del giudice di Catania è in atto una sorta di “depistaggio” concettuale. È, infatti, indubbio che il provvedimento catanese ha alla base una precisa scelta ideologica. Non possiamo, però, impedire al magistrato di avere una sua ideologia. Si afferma, tuttavia, che il magistrato non la può esternare perché diversamente “appare” non imparziale.

Le cose cambiano se mantiene un rigoroso riserbo, ma poi provvede in coerenza con la sua Weltanschauung? A quale civiltà apparterremmo se accettassimo l’idea che i provvedimenti del giudice vanno valutati non in base alle motivazioni che ne sono a base, ma in funzione delle sue personali scelte di vita? Chi pensa che questa è la soluzione corretta è pericolosamente vicino a quei sistemi (e ce ne sono tanti) nei quali i giudici sono longa manus del potere.

Occuparsi di diritto significa tenersi alla larga dell’approssimazione che, da quando abbiamo abolito il merito e la selezione su basi meritocratiche, è divenuta una costante, che si è insinuata nel nostro Dna. E per abbandonare l’approssimazione si rende necessario chiarire che il provvedimento da cui è montata la polemica (non ho letto gli altri, ma credo che non siano dissimili) nulla ha a che vedere con il dl n. 24 del 2023 convertito in legge n. 50 del 2023 (che si occupa del fenomeno migratorio, ma non innova alle disposizioni in vigore sul trattenimento) o con il decreto ministeriale 14 settembre 2023 (che stabilisce la possibilità che il richiedente protezione presti una garanzia finanziaria alternativa rapportata ai costi di alloggio e sussistenza e alle spese di rimpatrio, stabilendo, con una statuizione illegittima e come tale disapplicabile, che la garanzia non può essere versata da terzi). Non è un caso, infatti, che il provvedimento del giudice catanese del primo non parli e accenni al secondo come un “obiter” irrilevante. Quindi, ripeto: si cade nell’approssimazione quando si dice che il “decreto” Curto è stato disapplicato.

La questione è altra. Il giudice catanese ritiene di dovere fare applicazione diretta dell’art. 13 Cost. secondo il quale la libertà personale è inviolabile. Di conseguenza, interpreta le (altre) disposizioni di legge in vigore (che sono le direttive comunitarie e i provvedimenti legislativi, che ho illustrati in un mio precedente intervento) nel senso che essi non legittimano la pretesa dello Stato di trattenere coattivamente i richiedenti. Le direttive e le leggi, tuttavia, riconoscono che lo Stato possa “trattenere” chi chiede protezione nei tempi necessari per stabilire se la sua richiesta può essere accolta perché ne sussistono i presupposti o se ci sono ragioni ostative all’accoglimento (le direttive indicano in quattro settimane il tempo sufficiente a tal fine). Nel procedere a tale “interpretazione” il giudice ritiene che il “valore” presidiato dalla norma costituzionale sia prevalente e assorbente e che la libertà sia un valore non condizionabile.

È questo un punto nevralgico che pone la nostra democrazia su di un crinale pericoloso. Infatti, in questo modo il giudice che, per Costituzione, è soggetto alla legge, diventa giudice “della” legge. Che ciò accada non è del tutto negativo. Abbiamo il ricordo delle leggi razziali e, quindi, sappiamo che le leggi possono essere ingiuste e ringraziamo il Cielo di vivere in un Paese nel quale non si è mandati a languire in carceri sperdute per avere espresso opinioni contrarie al regime o per avere, come donna, fatto vedere in pubblico la propria capigliatura. E dobbiamo ringraziare il Cielo se oggi i nostri giudici possono risolvere i conflitti sociali o individuali tenendo in conto i “valori”, che, quando corrispondono a diritti fondamentali, la nostra Costituzione semplicemente “dichiara”.

Il problema, tuttavia, sta nei “limiti”, per rispettare i quali i giudici sono tenuti ad adoperare con prudenza i “valori”. Fu questa la ragione per la quale la Costituzione scrisse che essi sono soggetti alla “legge”, la quale stabilisce il confine tra il potere giudiziario e gli altri poteri: un confine liquido, ma proprio perché tale da osservare con estrema cura. La Costituzione ciò fece perché era consapevole che i giudici, che esercitano la loro funzione “in nome del popolo”, non hanno investitura popolare, ma trovano in sé stessi la loro legittimazione. E i Costituenti inserirono, proprio per fare sì che i confini fossero (nei limiti del possibile) rispettati, un giudice delle leggi, quale è la Corte costituzionale.

Di conseguenza, quando i giudici usano lo strumento dell’interpretazione per sindacare una legge, a loro avviso ingiusta, si muovono nel campo minato in cui rischiano di essere non già attuatori della legge, ma responsabili di decisioni di governo, così creando il conflitto istituzionale. E corrono il rischio di una progressiva loro delegittimazione e, nel tempo attuale di subdolo e sotterraneo autoritarismo, di leggi, appoggiate dal consenso popolare, tese a limitare il loro potere.

Dovrebbero chiedersi, infatti, se il popolo, nel cui nome esercitano la funzione, sono favorevoli all’idea che non si possa regolare l’affluenza dei flussi migratori, neppure per il tempo necessario per accertare se il richiedente ha diritto alla protezione. Ed è presumibile che il popolo, a larga maggioranza, lo riterrebbe necessario, così non condividendo il loro modo (incondizionato) di interpretare il diritto di libertà. Altra e diversa - oso sperare - sarebbe la risposta se si chiedesse al cittadino se siano ragionevoli i tempi di durata del “trattenimento” necessario al fine di valutare la meritevolezza del richiedente. Ma al riguardo i nostri giudici hanno ragione e hanno già bocciato la nostra (inaccettabile) burocrazia e i suoi tempi.