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di Giovanni Maria Flick

La Stampa, 2 novembre 2022

Il decreto del governo guidato da Giorgia Meloni che introduce il nuovo reato di “invasione di edifici finalizzata ai raduni” (sinteticamente ribattezzato “reato di rave”) prevedendo pene che possono arrivare a sei anni, ha scatenato un inevitabile dibattito che merita alcune osservazioni. Così come merita alcune osservazioni la discussione sull’ergastolo ostativo, alimentata, tra gli altri, da Gian Carlo Caselli con un articolo uscito su questo giornale.

Parto dal cosiddetto “reato di rave”, sottolineando la contraddizione di un ministro che annuncia forti depenalizzazioni, ma per prima cosa aggiunge un ulteriore reato, all’insegna del panpenalismo per cui tutto diventa materia penale. Aggiungo che, sorvolando sullo specifico di un dispositivo con evidenti punti di debolezza, è necessario partire da una domanda: c’era davvero bisogno di questo decreto? La “straordinaria necessità e urgenza”, per i quali l’esecutivo non può astenersi dall’intervenire senza aspettare il Parlamento, sono i rave party o le bollette?

L’uso dell’arma del decreto, pensato per situazioni non altrimenti risolvibili, è discutibile. Come cittadino resto perplesso e colgo un messaggio che non apprezzo. Come i decreti Salvini sovrapponevano immigrazione e sicurezza, il primo decreto Meloni sovrappone ordine pubblico e sicurezza.

Confesso che a me non piace la musica tecno, non amo chi occupa capannoni altrui, non ho mai partecipato a questo genere di eventi. Ma mi pare che si tratti di questioni sociali risolvibili con gli strumenti già esistenti. Sbaglio o a Modena il capannone è stato sgomberato mandando un po’ di poliziotti, senza violenza e con i ragazzi che hanno pulito prima di uscire? Non bisogna mai dimenticare che tutti i reati incidono sulle libertà. Se il diritto penale, anziché extrema ratio, viene usato per contrastare le diversità sociali e culturali, definendo apposite fattispecie criminali, finisce per scivolare sul crinale della democrazia securitaria, traduzione istituzionale del populismo penale. Si alimenta cioè la paura che la società stia crollando sotto una dilagante insicurezza. E si giustifica una modalità che affronta le questioni sociali sempre dalla coda, con il pugno duro: nuovi reati, carabinieri, carcere. Tema, quest’ultimo, totalmente dimenticato a dispetto del record di suicidi. Il connubio tra istanze securitarie e consenso popolare è pericoloso. Lo dico da cittadino che crede nella Costituzione.

E l’ergastolo ostativo? Era stato introdotto nell’emergenza delle stragi mafiose degli Anni 90, con la democrazia in scacco. Il presupposto era semplice: se non collabori, non puoi godere dei benefici carcerari. Come per la carcerazione preventiva ai tempi di Mani Pulite, è un dispositivo per cui il giudice non deve accertare fatti specifici e responsabilità individuali, ma contrastare un sistema. Il mafioso, come il corrotto, è l’ingranaggio di un sistema. La Corte ha detto: chi si ravvede ha diritto ai benefici, ma non si può stabilire in assoluto che chi non collabora invece non si è ravveduto. Bisogna dimostrarlo caso per caso. Benché molto saggio, il principio è stato da subito accolto polemicamente dal populismo giuridico, sia a livello politico sia a livello giudiziario. Come se fosse una resa alla mafia. È la teoria di Caselli: il mafioso per definizione si ravvede solo collaborando con la giustizia, perché in quel caso rompe il vincolo con l’organizzazione dimostrandosi inaffidabile, come sostenevano i magistrati del pool di Mani Pulite per la corruzione. Per la Costituzione, però, la persona non può essere mai considerata uno strumento. Pur eliminando l’automatismo, si richiede al detenuto la prova dell’assenza di legami attuali con l’organizzazione. Ma se non ci sono, come fa a dimostralo? E poi gli si chiede anche di provare che questi legami non ci saranno neppure in futuro. Una prova diabolica.

La riforma Cartabia aveva superato il tabù che per trent’anni aveva affidato il caotico rammendo del processo penale allo scontro tra magistrati e avvocati, sgomberando il binario dal masso rappresentato dalla pretesa dei magistrati di essere solo loro a decidere “il quale” e “il quanto” delle riforme. Oggi il rinvio totale per due mesi di tutta la riforma per affrontare alcune difficoltà organizzative pone due rischi: che una parte della magistratura riaffermi il suo potere di veto. E che i contrari alla riforma ne approfittino per rimettere tutto in discussione. Si poteva, forse si doveva, limitare il rinvio ai problemi che materialmente esigevano un adeguamento organizzativo. Un rinvio selettivo, anche come messaggio all’Europa sul Pnrr, i cui fondi sono condizionati alle riforme. Basteranno due mesi a organizzarsi, visto che i concorsi per giudici e cancellieri durano anni?