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di Donatella Stasio

La Stampa, 9 novembre 2023

Il governo e i giudici sono due mondi incomunicabili e in rotta di collisione come testimonia la vicenda Apostolico. Ci risiamo. Il patto Meloni-Rama per (de)portare in Albania i migranti richiedenti asilo salvati in mare da navi italiane e per chiuderli in centri di detenzione fino alla decisione sulla loro richiesta è - al di là della trovata elettorale di stampo chiaramente populista - un’altra forzatura giuridica sui migranti, frutto di una cultura estranea alla Costituzione e destinata a creare un nuovo fronte di scontro tra governo e giudici. Due mondi distanti e incomunicabili. Distanza per certi versi fisiologica; meno l’incomunicabilità, perché il terreno dovrebbe essere comune, il rispetto delle regole costituzionali e internazionali, mentre assistiamo a continui sconfinamenti (è proprio il caso di dire) e soprattutto all’attacco delegittimante (ben diverso dalla legittima critica) contro il giudice “colpevole” di decisioni sgradite e al tentativo di “punirne uno per educarne cento”. Emblematica l’ormai famosa vicenda della giudice Apostolico.

Ma mettiamo per ora da parte questo aspetto del conflitto e soffermiamoci sulle leggi oggetto del contendere (nel caso dell’Albania c’è soltanto un accordo) varate negli anni da governi e parlamenti per “gestire” o “combattere” il “fenomeno migratorio” e poi applicate dai giudici (anche quando le disapplicano, perché, se contrastano con norme comunitarie, la disapplicazione è un obbligo costituzionale). Ebbene, a seconda degli occhiali inforcati, quelle norme appaiono più o meno legittime: l’ottica politica guarda all’immigrazione come fenomeno, soprattutto di ordine pubblico, da neutralizzare più che da gestire, per cui la repressione, la segregazione, il respingimento prevalgono su integrazione e accoglienza; l’ottica giurisdizionale, invece, guarda alla persona, e non potrebbe essere altrimenti perché è un’ottica di garanzia, doverosamente attenta ai diritti fondamentali dell’individuo, italiano o straniero, a maggior ragione se fragile, come lo è un migrante, anche nel bilanciamento con altri diritti. Ecco, queste due diverse “visioni del mondo” entrano spesso in rotta di collisione. Non comunicano. E attenzione: non solo in Italia. L’Accordo con l’Albania evoca il progetto della Gran Bretagna di deportare in Ruanda i richiedenti asilo, progetto già bloccato dai giudici, sia dalla Corte dei diritti dell’uomo che dalla Corte suprema britannica, perché incompatibile con il diritto di asilo.

Per molti anni, in Italia le norme in materia di immigrazione sono state inserite in decreti legge denominati “pacchetti sicurezza”, titolo rivelatore del reale obiettivo perseguito: cavalcare le paure dell’opinione pubblica contro “l’invasione” dei barbari e acquisirne il consenso politico attraverso misure repressive in nome della sicurezza collettiva. Neppure i governi di centrosinistra si sono sottratti del tutto a questa mission pluridecennale, che spesso si traduce in forzature costituzionali: le maggioranze politiche di turno ne sono consapevoli ma lasciano ai giudici “il lavoro sporco”, se così si può definire il compito di contestare, fino a cancellarle, le norme vendute al “popolo” come unica medicina contro la paura del “nemico” straniero. Difatti, tutti i governi hanno incontrato sulla loro strada, puntualmente, lo sbarramento dei giudici. I quali, nell’applicare di volta in volta le norme, si sono fatti guidare dal rispetto dei diritti fondamentali delle persone coinvolte, sulla base dei principi costituzionali e del diritto internazionale. La differenza è che non tutti i governi hanno anche scatenato la caccia al giudice di fronte a pronunce sgradite. Questa - va detto - è una “prerogativa” delle maggioranze di centrodestra, nelle quali il centro appare afasico sulle garanzie, salvo rivendicarle quando si tratta di “clienti” diversi dai migranti.

Gli attacchi, in passato, non hanno risparmiato neppure la Corte costituzionale, anch’essa “nemica”, covo di “comunisti”, guidata da maggioranze “di sinistra” e così via. Chi non ricorda le ripetute accuse ai tempi di Silvio Berlusconi per le bocciature, oltre che delle leggi ad personam, dei vari “pacchetti sicurezza” targati Lega, accuse rilanciate negli anni successivi dal Carroccio ad ogni censura della Consulta di quei “pacchetti”. Il fatto è che il giudice costituzionale, come il giudice ordinario, pur giudicando le leggi non ha riguardo ai “fenomeni” ma ai diritti fondamentali delle “persone” e perciò deve censurare le soluzioni lesive di quei diritti. Una garanzia che si riverbera su tutta la collettività e sulla tenuta della democrazia costituzionale, perché rappresenta un argine agli sbandamenti autoritari, illiberali, incostituzionali.

Questo diverso approccio al problema dei migranti e i diversi ruoli giocati dai poteri in campo - che, pur separati e distanti, non dovrebbero mai combattersi ma rispettarsi - spiega anche perché è scorretto chiamare in causa un altro organo di garanzia come il presidente della Repubblica sostenendo che “se ha firmato le norme, significa che le condivide e che le ritiene costituzionali”. Non è così. Il Quirinale rifiuta la promulgazione solo in presenza di una “macroscopica incostituzionalità”, altrimenti non si spiegherebbe perché esiste la Corte costituzionale, e in ogni caso la sua firma su un decreto o su una legge non equivale mai a condivisione dei loro contenuti. Possono sembrare ovvietà, e in effetti lo sono, ma è bene ribadirle per non subire gli inganni della propaganda governativa.

Nel caso Apostolico, sarà la Cassazione a stabilire se il provvedimento della giudice di Catania e quelli, analoghi, di altri giudici sono giuridicamente corretti oppure no. I ricorsi del governo sono già stati assegnati alle sezioni unite della suprema Corte ed è auspicabile che la sentenza - qualunque essa sia - non venga accolta, dalle opposte tifoserie, come l’esito di una partita di calcio. La democrazia non si esercita con il tifo. Perciò è sbagliato, in questi casi, chiedere al “popolo” da che parte sta, per chi fa il tifo: per i giudici o per il governo? La democrazia non passa da questi test, peraltro rovinosi, come ci ricorda la storia di un signore di nome Pilato che, qualche migliaio di anni fa, chiese al popolo chi dovesse crocifiggere tra Gesù e Barabba e il popolo scelse il primo. Il “crucifige” della folla resta uno degli esempi emblematici di ciò che non deve essere la democrazia, ovvero il grido di un popolo che ha fretta, instabile, senza istituzioni indipendenti e di garanzia né procedure. La condanna emotiva di Gesù rafforzava solo il potere di Pilato senza fare giustizia.

Mi tornano alla mente le parole di Ruth Bader Ginsburg, l’icona liberal della Corte suprema americana scomparsa nel 2020, a proposito della pena di morte ancora vigente in molti Stati americani. “Se io fossi regina - mi disse in un’intervista - la pena di morte non ci sarebbe. Ma il punto è: chi deve decidere sulla sua abolizione? Quando parlo con i colleghi europei che si sentono superiori perché l’hanno cancellata, faccio sempre notare che se avessero fatto un referendum quando hanno deciso di abolirla, probabilmente il popolo avrebbe detto no; se lo facessero oggi che la pena di morte è vietata, forse il divieto sarebbe confermato. Ma ripeto: il problema è stabilire chi decide. L’America è un paese democratico, ma ci sono temi che non possono essere lasciati alla gente e che richiedono un livello diverso di decisione”.