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di Marco Belpoliti

La Repubblica, 5 giugno 2023

Un filosofo, Jacques Derrida, ha scritto che il perdono appartiene all’ordine dell’imperscrittibile, ovvero a quelle realtà che nel linguaggio giuridico non sono soggetti alla prescrizione. Si tratta di qualcosa di paradossale, come ha ribadito Renato Rizzi, medico, oncologo e psicologo, in un libro dedicato a questo tema (“Itinerari del perdono”, Unicopli). Si può perdonare solo dove c’è qualcosa di imperdonabile: da qui il pensiero del parroco nel ricordare Giulia Tramontano. Qualcosa che appartiene a una sorta di ordine superiore, dal momento che per essere tale deve essere assoluto. Quasi una assurdità su cui anche altri filosofi come Jankélévitch si sono interrogati in particolare dinanzi a quell’evento storico che è stata la Shoah. Per il filosofo francese questo avvenimento è inespiabile, irrevocabile, incancellabile. Come accade davanti all’uccisione di qualcuno che ci è caro, qualcuno che amiamo e che la violenza irrefrenabile ha cancellato dalla vita.

Quel crimine orrendo e incommensurabile che è accaduto durante la Seconda guerra mondiale, per cui nessun perdono risulta possibile, è anche un caso che mostra come il perdono non possa iscriversi in nessuna legge morale universale. Il perdono sta fuori da ogni logica giuridica, da ogni misura, perché appartiene all’incommensurabile. Come ribadisce Rizzi all’inizio di quel libro, questo atto riguarda il concetto stesso di gratuità. Nell’etimo falso, eppure vero, della parola “perdono” c’è la parola “dono”, tanto che la gratuità è la scaturigine del perdono, anche là dove vive l’idea opposta dell’occhio per occhio, dente per dente. Non è necessario essere credenti per sapere che il perdono vive fuori dalla legge medesima, oltre qualsiasi norma giuridica: supera ogni giudizio di colpevolezza. Il colpevole, ci ricordano i giuristi, ha compiuto qualcosa senza averne diritto, come spegnere una o più vite, e la richiesta di giustizia è per questo consona alla condanna. E tuttavia esiste qualcosa che è al di là di tutto questo, come Manzoni ci ha mostrato nel confronto tra Fra’ Cristoforo e l’Innominato, o come si vede nel gesto con cui Transibulo dopo aver posto fine il regime dei Trenta Tiranni ad Atene nel 403. Tornato vincitore nella città, per far cessare la guerra civile, egli decretò l’amnistia per tutti coloro che si erano resi colpevoli di atti di sangue. Per quanto poi questo gesto non abbia portato alla risoluzione dei problemi - il ritorno alla democrazia non significò in Atene la sospensione definitiva delle condanne a morte - tuttavia legò il perdono alla espressione mè mnesikakein: “non mi ricordo del male subito”, ragione per cui “non mi vendico”. L’oblio del male divenne forse per la prima volta la risposta di pace a una comunità profondamente divisa.

Oggi il tema della vendetta, per quanto esclusa da qualsiasi legge civile, suona come un tema di stretta attualità. Come spiegano gli studiosi della Grecia classica il gesto di Trasibulo non ricorse a contenuti politici ma religiosi, imponendo il giuramento del perdono davanti agli dèi. Forse non è un caso che sia stato proprio l’arcivescovo Desmond Tutu in Sudafrica alla fine dell’apartheid a lavorare per l’istituzione del “Tribunale del perdono” e con la “Commissione per la verità e la riconciliazione”. Rizzi si domanda nell’introduzione al volume se il perdono sia un valore religioso. La risposta non è semplice. Nell’Antico testamento il perdono spetta solo a Dio, mentre il Nuovo contempla la possibilità del perdono come fatto umano.

Il Buddismo usa invece un’altra chiave per accedere a quello che noi chiamiamo perdono: la compassione. Un tema anche questo che mobilita qualcosa di profondamente umano: il sentimento di pietà che comporta la partecipazione alle sofferenze degli altri. Certo nel cristianesimo risuona la voce di Gesù: “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno” nel passo del Vangelo di Luca. Molte domande si affastellano nella mente di chi deve affrontare questi temi: il perdono è un fatto che appartiene alla natura o è invece qualcosa portato dalla cultura? Di certo nella nostra società attuale si sente poco parlare del perdono, non è un tema che frequenta le aule dei tribunali o i libri di storia. Dominano quasi incontrastati a livello sociale risentimento e rancore, due sentimenti che occupano il campo sia negli individui singoli come nelle collettività più o meno ampie.

Non dimentichiamo che neppure uno spirito illuminato, oltre che illuminista, come Primo Levi voleva sentir parlare di perdono rispetto ai Lager nazisti e fascisti della Seconda guerra mondiale. Ma chi ha letto e riletto I sommersi e i salvati sa con quanta angoscia e con quanto rovello lo scrittore torinese si sia interrogato su tutti coloro che sono stati coinvolti a vario titolo in quel delitto incomparabile che è stata la Shoah. Derrida in Perdonare (Cortina) sostiene che il perdono deve essere incondizionato, e perciò silenzioso, invisibile, discreto.

Qualcosa di quasi impossibile. Eppure tra noi ci sono state persone che sono state capaci di questo e una volta per tutte hanno detto: “Ho perdonato”. Qualcosa che è al di là di qualsiasi naturale disposizione degli esseri umani, e tuttavia se anche solo uno l’ha fatto, vuol dire che è possibile.