sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Giovanni Valentini

Il Fatto Quotidiano, 5 aprile 2023

Non si può non concordare con Emma Bonino quando sostiene, come ha detto recentemente in un dibattito sulle cosiddette “famiglie arcobaleno”, che “la tela di fondo di questo governo è il proibizionismo”. In quell’occasione la leader radicale discuteva del riconoscimento dei figli e delle figlie di genitori omosessuali.

Ma il proibizionismo, dai rave party alla droga fino alla legge per vietare l’uso di parole straniere con relativa multa da 100 mila euro, vagheggiata dal deputato di Fratelli d’Italia, Fabio Rampelli, è la vera anima di questa destra, la sua cifra e la sua ispirazione. Non a caso il nostro Codice penale è rimasto in gran parte quello emanato nel 1930 dal Guardasigilli del governo Mussolini, il ministro della Giustizia, Alfredo Rocco, un corpus che da lui prende nome. Ed è inconcepibile che, a quasi un secolo di distanza, il Parlamento repubblicano non sia ancora riuscito a sostituirlo dal primo all’ultimo articolo.

Il proibizionismo, dunque, come valore assoluto, come criterio fondante e come strumento dell’ordine pubblico. Prendiamo il caso della droga e in particolare delle droghe leggere. Fra legittimi dubbi e illegittime ipocrisie, si parla ormai da anni di una possibile legalizzazione, per contenere, contrastare e regolare questo fenomeno o piaga sociale che dir si voglia. Una campagna civile permanente, insomma, imperniata sull’informazione, sulla consapevolezza e sulla dissuasione. Per intenderci, sul modello del fumo che - come si legge ormai sulle stesse scatole di sigarette - “nuoce gravemente alla salute”, perché è scientificamente accertato che causa l’85-90% dei casi di tumore al polmone. E per di più, danneggia anche chi lo respira.

Ma in Italia è proibito, per l’appunto, anche parlarne. Tant’è che nelle settimane scorse la Polizia di Stato è entrata in una scuola di Piazza Armerina, un Comune siciliano in provincia di Enna, dove si stava svolgendo un’assemblea studentesca sulla legalizzazione della cannabis. E, di fronte alle proteste dei ragazzi, c’è mancato poco che non scattasse qualche fermo. La lotta alla droga, infatti, viene interpretata e condotta come se fosse la lotta alla mafia, a cui anzi viene assimilata.

Ora, dopo tanti annosi dibattiti e tante inutili polemiche, nella sede dell’Assemblea regionale siciliana è intervenuto sull’argomento un personaggio al di sopra di ogni sospetto come l’ex Procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho, oggi deputato del Movimento 5 Stelle, per rivelare una sconvolgente verità.

E cioè, sono parole sue, che “regolare la cannabis significa togliere alle mafie una fetta importante del mercato legale degli stupefacenti”. Sconvolgente verità per chi non vuol vedere, non vuol sentire e soprattutto non vuol capire. Nel corso di quello stesso dibattito, il professor Ferdinando Ofria, docente di Politica economica all’Università di Messina, ha affermato - dati alla mano - che la legalizzazione della cannabis può produrre un risparmio di 540 milioni di euro all’anno per le spese giudiziarie e carcerarie e di altri 230 milioni per le attività di ordine pubblico e sicurezza. Ed è arrivato poi a quantificare in 9 miliardi il gettito fiscale che se ne potrebbe ricavare, istituendo un monopolio come quello delle sigarette.

È un discorso analogo a quello sulla prostituzione, il mestiere più antico del mondo. Regolarla è senz’altro meglio che lasciarla dilagare all’aperto sui marciapiedi o nelle periferie delle nostre città, con l’indotto dello sfruttamento e della criminalità più o meno organizzata. E se vogliamo fare un paragone più soft, immaginiamo per un momento che cosa accadrebbe se all’improvviso fosse proibita - per esempio - la liquirizia: diventerebbe verosimilmente oggetto di un mercato clandestino, in mano agli spacciatori e ai pusher, di qualità scadente e dannosa. D’altra parte, non accadde così nell’America degli anni Trenta, ai tempi del proibizionismo contro l’alcol?

Vale la pena, allora, ripetere alcuni dogmi dell’antiproibizionismo. Questo è un mercato dell’offerta più che della domanda. La droga non è vietata perché fa male, ma fa male perché è vietata. E fa male perché il proibizionismo favorisce il traffico clandestino, con tutti i rischi che ciò comporta in termini di salute e anche di sicurezza. Basti dire che l’apparato statale non riesce a impedire l’uso della droga neppure all’interno delle carceri, dove il cittadino detenuto è sotto controllo 24 ore su 24: come può farlo nelle strade, nelle piazze o nei parchi pubblici?

Piuttosto che continuare a discutere a vuoto e a impegnare tante risorse - umane, professionali ed economiche - in questa lotta impotente alla droga, faremmo meglio a riflettere sui dati di fatto, considerando tutti rischi, i dubbi e le incognite del caso. E magari a trovare soluzioni più efficaci e ragionevoli, come quelle adottate in altri Paesi del mondo. Proibire serve soltanto ad alimentare il fenomeno. Ovvero, ad allargare la “piaga”.