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di Concita De Gregorio

La Stampa, 4 novembre 2022

Adunata sediziosa, è lì che si torna. I rave non c’entrano niente. Difatti non sono mai menzionati, nel decreto di cui si parla da due giorni. Nemmeno in eventuale traduzione (che so: assembramenti deliranti) in ossequio alla compianta italianizzazione della lingua, quando Churchill era da scriversi Ciorcil e cocktail si diceva bevanda arlecchina per volontà del Duce, statista ispiratore. No, non sono menzionati.

I rave con questo decreto non c’entrano niente, ripetiamolo in coro. E che Giorgia Meloni, nel suo post pomeridiano su Facebook, senta di dover “rassicurare tutti i cittadini che non negheremo a nessuno di esprimere il dissenso” è una freccia al neon, se ce ne fosse bisogno. Perché sì, è questo il timore: diciamo pure che è la realtà, almeno per il tempo di vita del decreto che il Parlamento, speriamo, potrebbe radicalmente emendare.

È - questo - un provvedimento di legge che mira esattamente al centro del bersaglio: sorvegliare, schedare, reprimere persino preventivamente, dissuadere e punire chiunque si riunisca (in più di cinquanta persone, in luoghi pubblici o privati, sottolineo privati) mettendo in pericolo “l’ordine, l’incolumità o la salute pubbliche”.

Cioè sempre, cioè tutti: qualunque assemblea o occupazione studentesca, picchetto in fabbrica o sul luogo di lavoro, occupazione di edifici abbandonati per restituirli all’uso comune ma persino feste private, se stiamo alla lettera del testo: persino un addio al nubilato a casa di amici (“edificio altrui, privato”) se per dire un vicino ravvisa pericolo per la salute (la sua? Quella di chi festeggia?) o per l’ordine e l’incolumità, qualunque cosa siano. Intendo: chi stabilisce i parametri del pericolo? Un favoloso pretesto.

È a discrezione delle forze dell’ordine che intervengono? Non mi sentirei tranquilla, a giudicare dallo storico anche recentissimo: per un funzionario che sgombera dialogando ce n’è sempre un altro, più d’uno, che lo fa col manganello. Abbiamo Ilaria Cucchi eletta in Senato, non mi dilungherò sulla retorica delle “mele marce” e delle mele buone. Ma di nuovo: non può essere discrezionale, una valutazione del genere. Mai, per nessuna ragione, in uno stato di diritto.

E neppure, presidente Meloni, valgono le rassicurazioni personali, scritte e verbali. Né le sue, né quelle del ministro Piantedosi saranno allegate agli atti di un procedimento giudiziario quando ci sarà da applicare la legge, perché le leggi questo fanno: parlano da sole, indipendentemente dalle intenzioni di chi le ha scritte - e qui applico il principio della buona fede, sempre dovuto. Se il mondo fosse abitato da miliardi di cloni di Ghandi e di Madre Teresa ne basterebbero forse tre o quattro, alla convivenza civile, di leggi: non è quando le intenzioni sono buone, che servono. È per farle rispettare a chi ne ha di pessime e potrebbe in qualunque momento, diciamo per fare un esempio teorico anche domani, fare irruzione sulla scena.

Torniamo al testo del decreto, scritto malissimo o al contrario benissimo, qualora l’obiettivo fosse quello di fare pesca a strascico di qualunque forma di dissenso. È punito (in modo severissimo, con la possibilità di intercettare i sospetti) chiunque organizzi o partecipi a un “raduno” di più di cinquanta persone “invadendo”, cioè occupando lo spazio di “terreni o edifici altrui pubblici e privati”. Il reato si attiva quando si riscontrino genericissimi e non meglio declinati pericoli, si diceva: salute incolumità e ordine pubblico.

Mi astengo dall’indugiare sul fatto che il ministro Piantedosi era prefetto di Roma all’epoca dell’assalto alla Cgil, capitanato da Roberto Fiore e da altri leader di Forza Nuova - alcuni dei quali non avrebbero potuto essere in piazza perché appunto già giudicati “pericolosi” e sottoposti a Daspo - di come lavorino i servizi di sicurezza e le autorità collegate certe volte proprio non si capisce. Né che non abbia mai proceduto allo sgombero di Casa Pound, fra i primi dieci immobili da liberare a Roma secondo la lista di priorità allora in suo possesso. Ma questa potrebbe essere stata persino una scelta liberale, sempre ostinandomi nel principio di buona fede, speculare e simmetrica rispetto alla volontà di non sgomberare neppure altri luoghi considerati “di sinistra”. Non è andata esattamente così, non sempre, ma insomma quel che vorrei dire è che le occupazioni, a Roma in Italia e nel resto del mondo, sono vivai di pensiero e di azione, motore di economie più che legali e benvenute, luogo di elezione di quei giovani di cui sempre si parla (Meloni, nel discorso di insediamento: “Non vi limiterò mai, son stata io la prima, vengo da lì: siate liberi”). Sono laboratori di possibilità e correttori di ingiustizie sociali.

Per restare a Roma, città dove vivo - non nei quartieri alti, che pena doverlo precisare, ma proprio accanto a un centro occupato di cui osservo la quotidiana attività - alcune delle esperienze culturali più interessanti, mi verrebbe da dire le uniche davvero interessanti, sono nate dall’occupazione illegale, abusiva di spazi pubblici e privati sovente pericolanti.

La stagione magnifica del Teatro Valle Occupato, da cui sono passati Peter Brooke e altri giganti del Novecento. L’Angelo Mai, che dà casa ed è casa di Mariangela Gualtieri, immensa poeta, di Silvia Calderoni, Giorgina Pi e delle avanguardie nostre acclamate in Europa. Il Cinema America, oggi una delle realtà più fertili non solo della Capitale, direi ormai un’istituzione riconosciuta e frequentata dai massimi artisti del mondo - vedere il programma per credere - nasce dall’occupazione abusiva di uno spazio pericolante e abbandonato ad opera di studenti che avevano, prima, occupato molte volte il loro liceo facendone teatro di incontri pubblici.

Ma anche fuori dagli spazi culturali, sebbene il confine fra società e cultura sia un assoluto arbitrio, le case occupate - il diritto alla casa - sono il terreno su cui si sono esercitate alla politica generazioni: la sindaca in carica di Barcellona, Ada Colau, viene da quella storia e non è, direi, una pericolosa sovversiva. Solo a Roma 4stellehotel, Spin Time Labs e moltissimi altri edifici occupati fanno da ammortizzatore a ingiustizie sociali che le istituzioni non sono e non sono state in grado di sanare.

A Santa Croce in Gerusalemme, dove vivono cinquecento persone di cui cento bambini, dove c’è un laboratorio di restauro di opere sacre, la redazione di un giornale ideato e scritto da persone sotto i 25 anni e dove si fa teatro sul tetto, quando il Comune staccò la luce intervenne Konrad Krajewsi, elemosiniere di Papa Francesco, a farla riattaccare. Dio Patria e famiglia, d’accordo, ma sempre però: il Dio è di tutti, sì, comunque lo si chiami, la patria è di chi ci vive, le famiglie sono di ogni forma e colore.

Questo dice la voce di chi non ha voce, questo è il terreno del legittimo dissenso costitutivo della democrazia e d’altronde per colpire chi delinque le leggi ci sono già, il caso del tanto citato rave di Modena lo dimostra. Dove non ci sono, le leggi, o non sono rispettate né si vigila che lo siano è nelle curve criminali degli stadi, negli assembramenti di nostalgici tollerati come simpatico folklore.

Nell’abuso di alcol e di droghe in chi si mette alla guida e si uccide, ogni notte, o uccide persone incolpevoli - spesso ragazzi, anche loro - che solo per caso quella sera erano scesi sotto casa a parlare con un amico. Non serve il reato di adunata sediziosa. Serve applicare la legge che c’è. Non serve questo decreto. Che il riscatto politico, sentimento legittimo, non diventi vendetta, questo serve. Che non si traduca in “non faremo prigionieri”, come già si è sentito dire una volta da un ministro in questo Paese, in un governo di centrodestra che rivendica di essere il padre di questo. Padre nobile, addirittura. Avanti con la nobiltà d’animo e d’intenti, allora, padri e figli. Non siate timidi.