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di Donatella Stasio

La Stampa, 15 agosto 2023

Troppo facile, ma anche inutile, indignarsi per l’ennesima sortita dal sen fuggita del ministro della Giustizia Carlo Nordio, che stavolta ha sciaguratamente equiparato il suicidio di due detenute nel carcere torinese delle Vallette a quello dei due gerarchi nazisti, suicidi a Norimberga, Hermann Göring e Robert Ley. Uguali perché inevitabili, dice Nordio: non c’è sorveglianza che tenga quando qualcuno, per motivi “imperscrutabili”, decide di mettere fine alla propria vita. I due gerarchi erano sotto strettissima sorveglianza eppure sono riusciti a sottrarsi all’esecuzione della pena ingoiando cianuro. Morti inevitabili, quindi, proprio come quelle di Susan John e di Azzurra Campari - non certo condannate per crimini contro l’umanità, e già solo per questo ingiustamente equiparate ai due sgherri nazisti - che con il loro gesto “imperscrutabile” hanno portato a 43 i suicidi in carcere di questo 2023, non imputabili, però, alla responsabilità del carcere medesimo. Parola di Nordio. Che non vede alcuna responsabilità degli agenti, dei dirigenti, dei medici, dei vertici dell’amministrazione penitenziaria e meno che mai di sé medesimo, capo supremo di quell’amministrazione che, come dice espressamente la Costituzione, ha il compito di curare “l’organizzazione e il buon funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”. Già, perché il ministro della Giustizia è l’unico ministro a essere citato dalla Costituzione proprio per questo suo dovere specifico, che ha una rilevanza costituzionale: far funzionare i servizi della giustizia. E tra questi servizi c’è il carcere. Di cui porta tutta la responsabilità.

Può sembrare banale, riduttivo o quello che volete, ma il carcere è un servizio pubblico e ha come utenti i detenuti. Dal modo in cui è gestito dipende la loro risocializzazione e, a cascata, la sicurezza collettiva. Dipende quindi la recidiva (che ha un costo molto alto per la collettività). Il resto - pene più severe, marcire in galera, buttare la chiave - sono solo chiacchiere, per lo più da bar, che parlano alla pancia dei cittadini/elettori. Sono inganno, propaganda, insulto alla civiltà del diritto.

Forse Nordio stavolta si è reso conto della gaffe e ha cercato, seppure indirettamente, di scusarsi. Lo ha fatto a modo suo, senza rinunciare alla grandeur con cui ritiene di veicolare il suo pensiero, usando addirittura un videomessaggio all’universo penitenziario per annunciare la sua “intenzione di proporre” un “ampliamento” delle telefonate dei detenuti (purché non pericolosi) ai propri familiari (ora sono solo 4 al mese), come avveniva durante il Covid, quando l’emergenza, paradossalmente, aveva portato in carcere maggiore attenzione alla salute e alle relazioni affettive dei detenuti. Terminata la pandemia, la popolazione carceraria ha chiesto di poter tornare almeno al regime “ampliato” delle telefonate: una piccola cosa che dietro le sbarre significa moltissimo per uscire dalla solitudine. Eppure, finora è stata negata. Ma ora ecco il regalo di Ferragosto del ministro. In effetti, sembra una concessione, più nella logica del potere sovrano verso i propri sudditi che in quella del riconoscimento di un diritto. Tuttavia, qualcosa si muove, anche se è curioso che il ministro non annunci una decisione ma soltanto “l’intenzione di proporre”…

Nello stesso videomessaggio Nordio ammette: “Ogni suicidio è una sconfitta per lo Stato, una sconfitta per la giustizia e mia personale”. Non chiede scusa ma parla di un “dolore personale”. Gli fa onore. Peccato, però, che poi annaspi nel cercare un filo, un’idea, una direzione in cui portare il carcere, per farlo uscire dal pantano in cui è tornato a sprofondare. La drammatica verità è che questo governo non ha alcuna seria politica sul carcere, e naviga a vista.

La missione fondamentale della nostra Costituzione è la tutela dei diritti fondamentali della persona. Ebbene, se così è, il carcere è il luogo del paradosso. La Costituzione dichiara infatti inviolabili i diritti della persona, dalla libertà di movimento al diritto alla salute, dalla privacy all’istruzione, dal lavoro fino alle relazioni familiari e affettive, tutti diritti drammaticamente compressi in carcere e dal carcere. Un “male necessario”, si dice, per tutelare la sicurezza collettiva e le vittime. Eppure, dopo la catastrofe fascista, i costituenti posero dei limiti al potere punitivo statale, dettando precisi paletti al legislatore, che la Corte costituzionale è chiamata a far rispettare, a cominciare dalla funzione rieducativa della pena.

È su questo terreno che si misura anche la cultura liberale di Nordio: nella sua capacità di dimostrare che il detenuto non è altro dalle persone libere quanto alla sua dignità e quindi non può essere trattato soltanto come fonte di pericolo da neutralizzare, ma resta titolare dei diritti fondamentali. A partire dal diritto alla salute, che deve essergli garantito in pieno, con gli stessi standard garantiti alle persone libere, sino al punto da fargli scontare la pena fuori dal carcere se il carcere è incompatibile con le sue particolari condizioni di salute, anche psichiche. È stato così nella vicenda di Susan? Questo è quello che Nordio ha il dovere di accertare, questa è la sua responsabilità di ministro della Giustizia. Non c’è bisogno di “bacchette magiche” per fare il proprio dovere e onorare la Costituzione sul senso della pena.