sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Paola Di Nicola Travaglini*

La Stampa, 12 settembre 2023

La produzione giuridica, al pari di quella filosofica e religiosa, è, innanzitutto, una produzione culturale: fissa i valori su cui poggia la struttura della convivenza civile. Una sentenza non si limita a stabilire la regola del caso concreto, dando torto o ragione, ma delinea anche qual è l’ordine sociale, ritenuto legittimo, in nome dello Stato. La magistratura, attraverso l’attività interpretativa, dà forma alla realtà attraverso le sentenze e da un materiale caotico ed informe esprime la parola pubblica, in nome di tutti e di tutte, fissando un modello rigido che si impone nei confronti dell’intera collettività. Nome, norma, normale sono parole che hanno la medesima radice, in questa sequenza, perché decidono chi merita di esistere stabilendo la regola e i comportamenti da osservare.

La violenza di un uomo nelle sue diverse declinazioni - violenza di coppia, in famiglia, sessuale, fino al femminicidio - è un atto di misoginia, fondato su una diffusa e tollerata identità socio-culturale, mosso solo dalla volontà di una donna di essere libera da potere e controllo. Libertà di amare un altro uomo, di separarsi, di lavorare, di studiare, di trasferirsi, di fare sport, di fidarsi, di ubriacarsi, di passeggiare di notte, di ballare e divertirsi. È un’evidenza difficile da comprendere perché non concepiamo l’esistenza della libertà femminile cioè un diritto inalienabile e un diritto umano che se riconosciuto, davvero e non sulla carta, farebbe crollare il mondo tuttora costruito su ubbidienza, sopportazione e soggezione delle donne. Ancora oggi uscire con le amiche, ballare e ubriacarsi o decidere di lasciare un uomo violento è un atto eroico perché chi lo compie, con immenso coraggio, rischia lo stupro, fino alla morte. E ci appare normale. Il linguaggio delle sentenze per descrivere un fatto e per argomentare le conclusioni del giudice esprime una precisa rappresentazione culturale e sociale dei ruoli di genere e della violenza contro le donne. Se schiaffi e umiliazioni sono tradotti come liti familiari, l’atto linguistico consente di ritenere, in nome dello Stato, che nel contesto di coppia o domestico siano una modalità ordinaria di gestione dei conflitti tanto da legittimarli e renderli impuniti; questo al di là dell’intenzione di chi interpreta e decide. Se quegli schiaffi li sferra un uomo ad una donna, in nome dello Stato viene consentita la violenza di genere, nonostante vietata e punita. Le leggi senza gli interpreti sono lettera morta.

Se l’uccisione di una donna non viene inserita in un contesto di quotidiano potere e controllo maschile, da tutti spesso conosciuto e sottovalutato specie quando ci sono figli perché un padre è sempre un padre, si traduce in un banale quanto lineare “delitto passionale”. Se lo stupro è definito come un “impulso sessuale” di un confuso giovane o l’atto scherzoso di un buontempone, l’intangibilità del corpo femminile ed il consenso della vittima - ancora spesso l’imputata dei nostri processi - diventano irrilevanti nonostante gli orientamenti della Corte di Cassazione. I criteri di credibilità e attendibilità della sua testimonianza sono selezionati sulla base di regole formalmente giuridiche, ma inconsapevolmente morali, che impongono alla donna di essere silente e modesta altrimenti è consenziente.

Gli effetti di un linguaggio che non descrive il fatto ma lo deforma o lo omette, in base a stereotipi interiorizzati ed invisibili, produce effetti devastanti: non applica le ottime leggi che abbiamo; normalizza la violenza, ne svaluta gli oggettivi fattori di rischio (non “palla di vetro” di maghi e fattucchiere) che avrebbero consentito di fermarla, colpevolizza le vittime per essersela cercata e per non essersi comportate diversamente reiterando letture riduttive e romantiche del più difficile e radicato fenomeno culturale e criminale del mondo. Il linguaggio distorcente e distorsivo che vive fuori dalle aule entra nei processi, ostacola il corretto inquadramento giuridico e fornisce una lettura stereotipata della violenza: la gelosia giustifica inconsapevolmente l’autore ed edulcora l’atto criminale; lo stato emotivo, cioè il raptus, la perdita di controllo, la cieca passione deresponsabilizzano l’autore rendendolo vittima di sé stesso e dei suoi presunti tormenti e così si può far a meno di indagare la deliberata volontà punitiva nei confronti di una vittima colpevole di avere violato il suo ruolo sociale di figlia, moglie e madre in quanto tale, accudente, subordinata e ubbidiente.

L’imputato si trasforma magicamente nella vittima fragile e frustrata di colei che lo ha ferito con la sua libertà; di un contesto culturale e sociale che pretende la sua re-azione, altrimenti non è un uomo; di un ego smisurato che è centro di tutte le cose dalla notte dei tempi. Ecco perché si pone, con urgenza, oltre all’incremento di risorse e personale di uffici al collasso, il tema della formazione obbligatoria e continua di magistratura, avvocatura e forze di polizia oggi affidata alla scelta individuale di ciascuno. Abbiamo bisogno di strumenti, principalmente culturali, per leggere gli stereotipi, su uomini e donne, radicati in ciascuno di noi e che temiamo di incrociare, per il dolore di scavare nel nostro limite conoscitivo e nella radice collettiva della violenza maschile contro le donne limitandoci a sublimarla con un linguaggio deformante e convenzionale.

La sfida di uomini e donne di questo tempo e di questo Paese, a partire dalle istituzioni, è di riconoscere e poi decostruire stereotipi culturali millenari che capovolgono e distorcono i fatti spostando o attenuando, inconsapevolmente, la responsabilità: l’autore esprime sentimenti e passioni; la vittima non esercita diritti, ma provoca reazioni inconsulte. La magistratura sa bene di dovere fare la sua parte, come avvenuto per il contrasto al fenomeno mafioso o terroristico, per adempiere all’obbligo costituzionale che le spetta.

*Magistrata