sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Marco Fagiolo

L’Osservatore Romano, 4 giugno 2023

“Il carcere”: davanti a un titolo del genere i più cambierebbero immediatamente pagina, passando a qualcos’altro di più “interessante”. D’altra parte, come dargli torto? I media, di solito, fanno vedere il carcere come il luogo dove vengono reclusi i boss, coloro che hanno commesso gravissimi reati, magari qualche politico, oppure il luogo dove, quando succedono delle rivolte, i poveri agenti - sempre sotto organico - finiscono in infermeria. Lo descrivono come il luogo dove ci sono dei tornelli, dove la gente entra e esce a suo piacimento. Dicono: le forze dell’ordine arrestano e i magistrati li buttano fuori!

Semmai, è vero il contrario. Entrare è molto facile, anche da innocenti. Il caso di Michele Padovano insegna: finalmente assolto dopo solo 17 anni! Purtroppo la voce di chi il carcere lo vive da dentro difficilmente esce, altrettanto difficilmente viene ascoltata, perché il pregiudizio è tale che viene spesso ritenuta immeritevole di ogni considerazione.

Dopo queste brevi premesse, non è certo facile scrivere un qualcosa riguardante il carcere visto da dentro. Questo è il mio trentatreesimo anno di detenzione, a partire da gennaio 1991. Da allora, praticamente non è cambiato nulla, a fronte delle tante cose dette e mai portate a termine. Gli istituti sono sempre quelli, rabberciati, mai restaurati seriamente, e delle tante auspicate nuove carceri non se n’è mai vista l’ombra. Di contro, fortunatamente, alcuni sono stati dismessi, come quello all’Asinara e Pianosa.

Una delle cose sconcertanti è che ogni istituto si diversifica per regolamenti interni e per sorveglianza, nonostante insistano tutti nello stesso Paese, l’Italia. Così accade che i più fortunati approdino in un carcere dove tutto funziona a dovere e con una magistratura di sorveglianza propensa al reinserimento del detenuto. Altri, invece, si ritrovano in un carcere dove le condizioni di vivibilità sono penalizzanti e i magistrati di sorveglianza non concedono facilmente i benefici previsti dalla legge Gozzini.

Farò un esempio molto semplice, ma significativo, per far capire in che modo la differenza di regolamenti impatta sulla nostra vita quotidiana. Al Nuovo Complesso di Rebibbia il riso integrale si può acquistare normalmente, insieme a tutti gli altri articoli presenti sulla lista della spesa. Invece, nella Casa di Reclusione no, nonostante gli istituti siano confinanti. Di conseguenza si è costretti a fare la fila in infermeria per andare a visita medica e farsi fare la ricetta per poter acquistare detto prodotto che è venduto nell’istituto limitrofo, oltretutto dalla stessa ditta appaltatrice.

Ma le differenze importanti sono ovviamente altre. In alcuni istituti si è costretti a convivere con altre cinque, sei, o più persone nella stessa angusta cella. In altri si ha la “fortuna” di alloggiare in una cella singola. Esiste anche una diversità riguardo alla nazionalità dei detenuti. Ci sono istituti dove oltre il 70 per cento dei reclusi è rappresentato da stranieri, altri dove il loro numero è minimo. Questo si ripercuote sulla vita interna, rendendo ancora più difficile la convivenza soprattutto quando ci sono persone - italiane o straniere - che non hanno interesse a mantenere un buon comportamento per ottenere qualche beneficio di legge.

Al di là delle differenze tra istituti, una delle nemiche principali di chi vive il carcere è la lenta e irragionevole burocrazia. A volte si aspettano anni per una risposta, che poi, magari, è negativa. Ciò determina stress e frustrazione inauditi, che sono spesso causa dei tanti, troppi suicidi, che si moltiplicano ogni anno che passa.

Il carcere è un luogo di sofferenza. Questo non vale solo per chi è costretto a viverlo da condannato o, peggio, per chi è in attesa di giudizio. Anche per i familiari il carcere diventa un calvario, con le lunghe attese per ottenere un colloquio e le umilianti perquisizioni corporali a cui a volte vengono sottoposti. Purtroppo nessuno controlla i controllori e spesso l’umanità dei detenuti e dei loro familiari è considerata un’umanità di “serie b”.

Gli orientamenti della politica rispetto a queste tematiche sono stati ondivaghi. A quanto pare, le tendenze più recenti sembrerebbero volte a depotenziare i benefici carcerari introdotti dalla legge Gozzini, che permise di mettere fine alle continue violente rivolte carcerarie dei primi anni 70. Se così fosse, si instaurerebbe un clima totalmente diverso dall’attuale.

Personalmente auspico che ciò non accada e che piuttosto si rifletta sulle ragioni per le quali abbiamo una così grande popolazione carceraria. Che si curi la causa del male, non che si cerchi di annullarlo rinchiudendolo tra quattro mura. Il male non si estingue così, togliendo la speranza al detenuto.

Attualmente il carcere è una discarica sociale, dove si cerca di confinare coloro che si pensa siano dannosi per la società stessa. Ma, a meno che non si decida di far morire tutti in carcere, cosa farà chi prima o poi uscirà? Se, invece di cercare di insegnargli qualcosa e di prepararlo a una vita diversa, è svilito, umiliato, disumanizzato, il detenuto può diventare ben più pericoloso di quando è entrato. Questo non è il sistema giusto per tutelare la società. Non si ottiene così più sicurezza. Anzi, se si andasse affermando questo tipo di politica penitenziaria, i reati gravi, invece di diminuire, aumenterebbero e diventerebbero più violenti, perché al fine di sfuggire ad un’eventuale cattura e di andare incontro a una pena senza più speranza, chi delinque non si farebbe scrupoli ad abbattere ogni ostacolo, eliminando ogni eventuale testimone.

Ad oggi, il reinserimento del detenuto nel tessuto sociale non funziona e non avviene. I pochi che ci riescono devono ringraziare solo se stessi, per la volontà dimostrata, e qualche volontario che veramente ha creduto in loro. Per il resto sei soltanto un nome su un pezzo di carta insieme ad altri a formare dei faldoni che prendono polvere, dimenticati sui tavoli dei vari uffici competenti.