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di Alberto Cisterna

Il Riformista, 31 marzo 2024

Il procuratore di Perugia denuncia “un arretramento significativo nella lotta alla corruzione”, secondo una logica dell’Antimafia. Ma non si può adoperare l’abuso come manifestazione minore di un malaffare, senza rischiare di dare una lettura criminogena fondata sul sospetto, scatenando una reazione sociale. Il moltiplicarsi dei fronti aperti dalla politica in questi giorni suscita nella magistratura una comprensibile preoccupazione. Dall’introduzione dei test psicologici per il concorso al fascicolo personale per valutare il giudice, dal profilarsi della separazione delle carriere all’abrogazione dell’abuso d’ufficio è un susseguirsi di iniziative che stanno costringendo l’Anm, e molti procuratori della Repubblica, a una sorta di tour de force mediatico e istituzionale per dare voce alle proprie allarmate prese di posizione.

Nei giorni scorsi è toccato ai procuratori di importanti sedi giudiziarie esprimere le proprie, gravi perplessità per l’abolizione del reato d’abuso d’ufficio in sede di commissione parlamentare. L’obiezione che le toghe muovono a una tale soppressione è stata efficacemente espressa dal procuratore Cantone secondo cui “l’abrogazione dell’abuso d’ufficio rappresenta un arretramento significativo nel contrasto ai reati contro la PA e soprattutto ai fatti corruttivi e renderà più complesse le indagini”.

Il ragionamento è chiaro: l’abuso d’ufficio è una sorta di filo d’Arianna che consente di risalire la china del malaffare e di penetrare nel labirinto oscuro della corruzione. Un faro acceso sulla pubblica amministrazione che può illuminare il sentiero verso l’accertamento di reati molto più gravi. Insomma, è quello che ormai tutti definiscono un “reato spia”. Categoria che fa’ inorridire i puristi del diritto penale, secondo cui l’incriminazione delle condotte è consentita solo quando abbiano un proprio, credibile disvalore sociale e non perché siano predittive di altri reati. Si potrebbe discutere per molto tempo di queste cose che, tuttavia, rischiano di perdere di vista la sostanza della discussione in corso e ignorano l’urgere dei tempi.

L’abrogazione tout court del reato non può condividersi perché porta con sé l’esclusione della pena anche per tutti i casi in cui il funzionario pubblico abbia violato il dovere di astensione e ciò è obiettivamente un problema grave che minaccia la stessa legittimità costituzionale della norma che il Parlamento si appresta a varare. Neppure il “partito dei sindaci”, l’entità politica trasversale che invoca da anni l’abolizione dell’abuso d’ufficio, ha mai messo in discussione questa parte della norma incriminatrice.

Ma tant’è e la sorte dell’acqua sporca. Fatta questa precisazione, il discorso flette nuovamente verso la posizione espressa dai procuratori della Repubblica, ossia verso la tesi che ravvisa nell’articolo 323 Cp una sorta di utilità marginale che il reato avrebbe per scardinare le porte dell’omertà corruttiva e per accertare più gravi violazioni di legge. suDue osservazioni sul punto. Perché quel ragionamento possa ritenersi pienamente persuasivo, e non meramente suggestivo, occorrerebbe disporre di dati certi che dimostrino che, in un numero apprezzabile di casi, la corruzione sia stata scoperta a partire da una semplice indagine per abuso d’ufficio che, come si sa, non consente attività investigative penetranti come trojan e cose del genere.

In altre parole, si dovrebbero indicare al Parlamento frequenze statistiche che dimostrino l’assunto per consegnargli le stimmate di una verità condivisa. La rilevazione è certamente possibile e nel farla si dovrebbe tenere in considerazione che il rapporto tra indagini per abuso d’ufficio e indagini per corruzione, turbativa d’asta e via seguitando è di circa 100 a 1, con uno spread elevato cui corrisponde il costo sociale e politico lamentato dagli “abrogazionisti” del reato. Per ribaltare l’argomento “particolarmente testardo” che archiviazioni e assoluzioni a valanga consegnano al partito dell’abolizione sarebbero indispensabili cifre di segno contrario che dimostrino la necessità, invece, di tenere in piedi l’articolo 323 per giungere a risultati investigativi altrimenti inaccessibili.

La seconda questione è più delicata. La circostanza che le audizioni e le prese di posizione provengano da apprezzati titolari di uffici di procura distrettuale nasconde il fondamento, per così dire, ideologico e metodologico che queste riflessioni imprimono alla discussione in atto. Sono, per lo più, procuratori antimafia di grande professionalità ed esperienza, quelli intervistati o auditi, che hanno coltivato con convinzione e con successo un metodo di investigazione che assegna, appunto, rilievo centrale ai cosiddetti reati-spia. Le associazioni mafiose sono nebulose opache, nascoste, avvolte nelle tenebre dell’omertà e delle complicità e per potervi penetrare sono necessarie indagini su singoli episodi criminosi che segnalino - secondo una certa precomprensione del fenomeno - l’esistenza di retrostanti o sottostanti raggruppamenti mafiosi. Un attentato, un incendio, un’intimidazione, un arsenale d’armi, un’usura, un ferimento. Il reato “minore” punta l’indice verso quello “maggiore” e pretende che le investigazioni si lancino nello squarcio per gettare una luce sui clan rimasti nell’ombra. Anche questo ha un prezzo, ovviamente, in termini di sacrificio dei diritti, di esplorazione a strascico, ma il discorso ha una sua linearità e può essere accettato.

La legge Spazzacorrotti ha esteso questa metodologia e gli strumenti che porta con sé (dal pentitismo alle misure di prevenzione, con qualche aggiustamento e adattamento) dal terreno delle mafie a quello, appunto, del malaffare. Con un problema, tuttavia: ossia che il reato-spia dell’abuso non ha quella capacità rappresentativa (se vogliamo, predittiva) che hanno per le mafie gli episodi criminosi di cui si è detto. L’abuso d’ufficio non è l’anticamera o la manifestazione ragionevolmente certa di una corruzione o di una concussione, così come l’incendio di un negozio lo è per il racket mafioso. Così l’indagine per abuso smarrisce la legittimazione “ideologica” e criminologica che gli si intende assegnare per preservarlo dalla cancellazione e si atteggia a strumento percepito (a torto o a ragione) dagli amministratori pubblici come vessatorio e dannoso.

Traslare, o anche solo pretendere di assimilare, l’approccio investigativo adoperato per le mafie al territorio della corruzione sconta, quindi, un duplice deficit. Da un lato la correlazione tra un attentato incendiario e una latente cosca di mafia è un legame forte che si fonda su un consenso sociale e giuridico significativo in forza del principio di territorialità dei clan. Dall’altro, invece, non si può adoperare l’abuso come manifestazione minore di un malaffare, poiché in questo caso non solo il legame è debole, ma a lungo andare (e malgrado gli aggiustamenti legislativi) si è provocato un moto di reazione particolarmente violento e profondo. Perché se l’abuso sembra aver fallito - in larga misura - sul crinale giudiziario come “spia” delle corruzioni, ha invece manifestato tutta la propria virulenza dirompente sul versante politico e mediatico essendo stato metabolizzato dalla pubblica opinione (soprattutto locale) esattamente come esemplificativo di pubblici funzionari disonesti e clientelari.

È una strada che deve essere, a ogni evidenza, abbandonata, soprattutto da parte di chi con qualche ragione si oppone all’abrogazione dell’articolo 323, perché è proprio l’aver qualificato e adoperato l’abuso d’ufficio in questa traiettoria obliqua che ha reso forte la posizione di chi oggi ne invoca la cancellazione. A dimostrazione che, a lungo andare, una scarsa sorveglianza sull’intera cultura investigativa genera modelli e strumenti che sono stati giustamente presi a riferimento per combattere le mafie, ma che tendono pericolosamente a tracimare in direzione di ambiti profondamente diversi, verso una pubblica amministrazione che è governata da regole, principi e strumenti di controllo e che nulla ha a che vedere con i problemi posti dalla palude mafiosa.