sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

recensione di Francesco Gianfrotta

Corriere Torino, 27 giugno 2022

La neo direttrice del Lorusso e Cutugno, nel suo libro “Senza sbarre” riflette sulla necessità di integrare lo spazio della detenzione con il territorio. C’è un destino che accompagna il carcere: la scarsa visibilità, salvi i casi di emergenze. Lo ribadisce la neo-direttrice del carcere di Torino, Cosima Buccoliero, nel libro Senza sbarre, scritto con la giornalista Serena Uccello: “Dei molti luoghi che determinano la nostra condizione di cittadini abbiamo esperienza diretta. Della scuola, degli ospedali, degli uffici pubblici. Il carcere, invece, è un luogo che non ha appartenenza. Che non ha riconoscibilità. Esiste ma rimane fuori dalla nostra percezione”.

Semplice la spiegazione, si dirà: il carcere è un luogo destinato ai disonesti o presunti tali, tenuti lontani - per legge - dal resto della società. Eppure la letteratura sul tema, invero abbondante, ci racconta di una complessità che nessun autore nasconde o ridimensiona e che, perciò, dovrebbe indurci, in quanto cittadini, a saperne di più, senza rimozioni: operate invece da chi non vuole fare i conti con questioni difficili, che chiamano in causa le idee che ciascuno di noi ha sulla giustizia penale, sulla sicurezza, sugli obiettivi che l’intero sistema penale dovrebbe realizzare, qui ed ora. Per fermarci a Torino, si tratta di rigenerare un insieme degradato, a lungo distintosi per merito dei suoi operatori, risultati capaci, a partire dall’allora direttore Pietro Buffa, di costruire realtà (di studio, di lavoro, di formazione) coerenti con l’obiettivo della funzione rieducativa della pena, e non permeate da quella disperazione che spesso induce il detenuto a gesti autolesivi anche estremi (questi ultimi non a caso a lungo non verificatisi a Torino). Una ragione di più per tornare sull’argomento, almeno in questa città.

Leggendo “Senza sbarre” riparte la speranza. Nel curriculum di Cosima Buccoliero spicca l’esperienza di direzione del carcere di Bollate, dal 2000 modello di istituto, destinato a detenuti non classificati in una delle varie categorie di pericolosità, e organizzato per assicurare a chi vi è ristretto occasioni per ripensare alle proprie scelte di vita e modificarle nel futuro. Un Ministro lo avrebbe voluto utilizzare come serbatoio per lo sfollamento del carcere milanese di San Vittore. Per fortuna prevalsero altre opzioni: quella visione che fa pensare alla direttrice che il cambio di direzione non nuocerà al progetto che aveva ispirato le esperienze realizzate e che “Bollate…ha i tratti dell’esempio che può essere replicato”. È un punto centrale, questo: che non rileva solo per il carcere di Torino, ma potrà incidere sul futuro dell’intero sistema penitenziario.

Il carcere di Bollate sorge in un territorio (l’area milanese) nel quale è sempre stato radicato lo spirito di solidarietà nei confronti dei soggetti svantaggiati, manifestato non solo dal volontariato e dalla Chiesa, ma anche dal circuito istituzionale e dal mondo imprenditoriale. Torino, però, non è (mai stata) da meno. Campanilismi e graduatorie sarebbero fuori luogo. C’entra l’esperienza - che parla da sola - di un passato tutt’altro che remoto e neppure breve; accompagnata dall’amara constatazione che occorre tanta fatica per realizzare cose che dimostrano che un altro carcere è possibile, ma in poco tempo la disattenzione (a dir poco) può far crollare molte parti dell’edificio.

Il carcere è una porzione del territorio. Lo affermava, nei documenti ufficiali, all’inizio del millennio, anche chi non ci credeva molto e pensava al carcere soprattutto come un insieme di cancelli e sbarre. Lo si ripete, dopo venti anni, a riprova del fatto che è necessario ribadirlo e spiegarlo. In carcere finiscono coloro che - come dice Cosima Buccoliero - ad un certo punto della vita hanno iniziato a deragliare, in un territorio nel quale, anche a causa loro, si è diffusa insicurezza.

Ma è proprio in quel territorio che essi torneranno, al termine della detenzione. Si tratta, allora, di trasformare un costo in un investimento; se ci si riesce, la collettività avrà avuto, dalla spesa sostenuta per tenere in piedi il sistema dell’esecuzione penale, un’utilità: la restituzione alla comunità di persone cambiate. L’abbattimento del tasso di recidiva è un obiettivo che il sistema paese (quindi, non solo chi se ne occupa per mestiere) dovrebbe perseguire con convinzione, operando scelte razionali. Si potrebbe, così, recuperare quella ricchezza generale che nuove braccia e intelligenze, se orientate al rispetto dei valori della legalità, possono assicurare ad un certo territorio.

La nostra Costituzione, al riguardo, non si limita a fissare la rieducazione quale finalità delle pene (tutte, non solo quella detentiva). L’art. 4 della Carta dà indicazioni che bisogna saper leggere: “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere… un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Verrebbe da aggiungere: sempre, dunque anche se ex-detenuto. Le statistiche ufficiali ci dicono che dove si è investito, con competenza e senza buonismi, nell’offerta di studio, lavoro e formazione e nelle sanzioni alternative al carcere, i risultati sono stati incoraggianti (pena risultata utile).

Il futuro della neo-direttrice di Torino, quindi, è chiaro: il suo impegno nel carcere cittadino - per rilanciare situazioni deterioratesi negli ultimi anni - dovrà essere sostenuto da questo territorio, come è già accaduto in passato. Dovrà, di certo, fare i conti con difficoltà strutturali (l’adeguatezza degli ambienti detentivi alla mission del carcere riguarda anche il Lorusso e Cutugno). E ci sono altri problemi generali dei quali Cosima Buccoliero, nel libro, si mostra consapevole: il ripensamento dei compiti dei diversi operatori, a partire dalla Polizia penitenziaria; l’utilità delle pene detentive brevi. Ma l’esperienza accumulata e le sue idee le consentiranno di superare la prova.