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di Mauro Bezzecchi

Il Dubbio, 16 febbraio 2024

Persino Nordio ha fatto capirete il divorzio tra giudici e pm è un intralcio al premierato, unico vero obiettivo di Meloni: ma pur di ottenere il terzo mandato per i governatori (e tenere così Zaia lontano da Roma) Salvini è pronto a usare la riforma delle toghe come arma di pressione. Alla buvette di Palazzo Madama, il presidente della commissione Affari Costituzionali Alberto Balboni, dopo la faticosa mediazione condotta la settimana scorsa sul testo del premierato, ora è alle prese con le sedute-fiume sugli emendamenti, a causa del feroce ostruzionismo delle opposizioni, e quando sente parlare di terzo mandato alza le mani (per usare una formula meno rude di quella passata alla storia). Si limita ad aggiungere che, mentre per il ddl Casellati sull’elezione diretta del premier, i tecnici e gli “sherpa” della maggioranza (lui compreso) avevano un peso nella definizione della trattativa, in questo caso la questione è tecnicamente banale, e quindi squisitamente politica.

Giorgia Meloni, nei giorni scorsi, parlando in presenza o da remoto coi suoi collaboratori più stretti e coi parlamentari impegnati sui dossier più importanti, ha ribadito in modo cartesiano il concetto: la precedenza assoluta deve essere accordata a quella che ha già più volte definito “la madre di tutte le riforme”, e ogni sforzo di mediazione o eventuali concessioni agli alleati vanno fatti in funzione dell’avanzamento di questo ddl. Tutto il resto, soprattutto quello che potrebbe dare fastidio, ingombrare la corsia parlamentare del testo Casellati 2.0, va gentilmente fatto accomodare in sala d’attesa.

Tutto chiaro, dunque, e lo si vede da come il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha tessuto le lodi del suo cavallo di battaglia (la separazione delle carriere), ma ha aggiunto che se ne parlerà dopo l’approvazione del premierato. Il problema è che il diktat meloniano, non solo in questa fase ma nel corso di tutta la legislatura, è ben noto anche alla pattuglia salviniana e potrebbe dunque rappresentare un’arma a doppio taglio. Perché è fin troppo facile arrivare alla conclusione che, dal punto di vista del leader del Carroccio, tutto ciò che potrebbe portare pregiudizio alla Grande Riforma che Meloni sogna di intestarsi, peserebbe il doppio. Una specie di sudoku, un rompicapo in cui entrano calendarizzazioni parlamentari, scadenze elettorali, rapporti di forza interni ai partiti (e qui il problema è tutto di Salvini, che se non riuscirà a far rimanere Luca Zaia in Veneto rischia le idi di marzo leghiste), provvedimenti-bandiera di ogni forza della maggioranza.

Difficile andare per ordine, in una situazione così magmatica, ma nelle prossime settimane - a partire da quella che sta per iniziare - potrà succedere tutto, e i giochi di sponda interni al centrodestra potrebbero cambiare. Nel Transatlantico di Montecitorio, si può dire che vi sia un presidio di colonnelli leghisti (capitanati da Andrea Crippa) in servizio permanente effettivo di invio messaggi velatamente ricattatori alla premier. Ogni ragionamento finisce inevitabilmente per mettere in dubbio l’approvazione del premierato, come ha fatto capire, andando un po’ più in là, Edoardo Rixi. E allora potrebbe succedere, ad esempio, che Forza Italia, per spingere - come vorrebbe Tajani - sulla separazione delle carriere, decida di approfittare delle beghe altrui, contando sul fatto che la Lega, a suo tempo, sottoscrisse i referendum ultragarantisti dei radicali. E magari Salvini potrebbe ricordarsi che, su questo fronte, la premier è piuttosto tiepida, come lo è stata storicamente la destra. Basti vedere i numerosi tentativi operati da Silvio Berlusconi per arrivare alla separazione delle carriere, regolarmente frustrati in maggioranza da Gianfranco Fini e dalle numerose toghe presenti dentro An. La memoria del passato, su questo dossier, è ben custodita dal sottosegretario ed ex-magistrato Alfredo Mantovano, che non a caso sembra poco entusiasmato da un’accelerazione sul fronte giustizia.

In casa Carroccio tengono ancora coperta questa ulteriore carta per mettere in difficoltà Palazzo Chigi, ma ogni tanto ci pensano. Gli azzurri, a loro volta, esultano per aver ottenuto la depenalizzazione dell’abuso d’ufficio, ma non stravedono per l’Autonomia, che in commissione alla Camera sarà tenuta a bagnomaria per lungo tempo, verosimilmente fino alle Europee o non prima del via libera dell’aula del Senato al premierato. In ordine di tempo, la grana Zaia, dunque, è quella più urgente: martedì prossimo in commissione, se la Lega non arretrerà, ci potrebbe essere un drammatico voto sull’emendamento per il terzo mandato, in parallelo a quelli sul premierato.

Paradossalmente, il giorno dopo i tre leader del centrodestra dovranno salire sullo stesso palco, a Cagliari, per tirare la volata a Paolo Truzzu, candidato governatore targato FdI che la Lega ha dovuto ingoiare e per il quale non si dannerà di certo l’anima. Calare le braghe nell’isola dei Quattro Mori, per Salvini, è comunque accettabile. Ciò che non può assolutamente ammettere è di farlo in Veneto, a beneficio poi di un meloniano come Luca De Carlo. È per questo che, curiosamente, dalla linea del Piave tracciata dai leghisti potrebbe generarsi un’altra guerra di trincea, questa volta senza vero spargimento di sangue.