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di Tiziana Maiolo

Il Dubbio, 19 marzo 2024

La separazione delle carriere tra giudice e pubblico ministero rischia di diventare un feticcio di tipo amatoriale. Non per la storica divisione tra garantisti e forcaioli, tra riformatori e conservatori legati al sistema inquisitorio. Ma a causa delle incertezze e delle ambiguità all’interno di quello stesso mondo politico nelle cui mani questa bandiera dovrebbe essere tenuta saldamente. Non è in discussione la buona fede di nessuno. Ma una domanda va posta. È proprio necessario, a questo punto della discussione in Parlamento, che il governo presenti anche una propria proposta di legge? Sono forse carta straccia le indicazioni dei partiti, quelli che hanno la separazione delle carriere nel proprio programma, e il testo presentato dall’Unione delle Camere penali forte di 70.000 firme dei cittadini?

Occorre essere chiari. La proposta in discussione in Parlamento è il minimo sindacale di riforma, dal momento che prevede che pm e giudice facciano parte dello stesso ordinamento e si distinguano solo per funzioni, carriere e organizzazioni, con i due Csm. Non prevede che i pm escano dall’ordinamento giudiziario e diventino avvocati dell’accusa. E neanche che debbano rispondere dei propri atti al ministro della Giustizia. Neppure si parla più di quel fondamento del processo accusatorio che dovrebbe essere il superamento dell’obbligatorietà dell’azione penale.

Minimo sindacale sia, dunque. Ma che sia condiviso non solo a grandi linee anche dal governo. Perché qualunque tipo di “sfumatura” che venisse applicata a questi principi base farebbe precipitare la proposta nel mondo delle controriforme, cioè dell’inutilità. Quell’Olimpo ovattato dove vivono in tranquillità le toghe e le ex toghe abituate ai vezzeggiamenti di governi di vario colore ma di uguale subalternità. Si tratta di un mondo forte nelle proprie certezze, che ha avuto un robusto baluardo nella Corte costituzionale nei momenti successivi all’entrata in vigore del codice di procedura penale “tendenzialmente” accusatorio del 1989. E poi, via via, di aggiustamento in aggiustamento, di sfumatura in sfumatura, di doppio binario in doppio binario, ecco risorgere gran parte di quel sistema inquisitorio della cultura conservatrice, ma a volte reazionaria, che molta parte della magistratura non ha mai voluto abbandonare.

Il vero punto centrale della separazione delle carriere è il giudice, e la difesa del suo ruolo e della sua terzietà. Ma non è secondaria l’anomalia tutta italiana con l’esistenza di un pubblico ministero sempre più potente e incontrollabile. Ma difeso con molta pervicacia dalla parte più esibizionista e mediatica della magistratura. A partire dal sindacato, con le mille toghe che in una petizione avevano indicato la riforma come “norma pericolosa”, fino ai cinquecento, non più giovani ma decisamente forti, pensionati che li avevano preceduti nella protesta. Il loro argomento più radicato è che qualunque riforma, da quella debolissima del referendum di Lega e radicali che accentuava la separazione delle funzioni, fino a quella oggi in discussione, metterebbe in discussione la “cultura della giurisdizione” di cui il pm sarebbe oggi portatore. Ma nessuno di tutti questi togati ha mai saputo né potuto rispondere alla più banale delle domande: conoscete dieci casi in cui la cultura della giurisdizione abbia indotto un pm a cercare le prove a favore dell’indagato, cui sarebbe obbligato per legge?

Ma c’è anche un altro punctum dolens da cui temiamo che il governo possa farsi irretire, se non proprio intimidire. Ed è la paura, abilmente agitata dai conservatori, che questa riforma, con la divisione dei Csm, possa aprire la strada, o addirittura un’autostrada, ad allineare l’Italia, finalmente, alla civiltà di tutto il mondo occidentale, in cui non esiste un rappresentante dell’accusa irresponsabile, come è in Italia. E un giudice che purtroppo nel processo assomiglia spesso a un vero “prigioniero politico” del pubblico ministero. Un sistema in cui il concetto stesso di magistratura come corporazione e casta puzza già di inquisizione. Come già illustrato in passato da Giovanni Falcone. Inutile citare i sistemi anglosassoni, dagli Usa all’Inghilterra. E neppure Francia, Spagna, Portogallo, Germania. Fino a Nuova Zelanda, Australia, Canada, Giappone. O ricordare che ci sono Paesi come la Francia e gli Stati Uniti che riescono persino a processare esponenti del governo in carica. Tutti sistemi evidentemente poco democratici, cui dovremmo preferire quelli dei Paesi totalitari. Ma non è una vera spinta contro- riformatrice da parte del governo a preoccupare, oggi. Giorgia Meloni e gli altri leader del centrodestra hanno un programma di governo chiaro sulla giustizia e sulla necessità di separare le carriere di giudici e pm. E il ministro Nordio e il suo vice Francesco Sisto sono due garanzie, da questo punto di vista. È il cesello della sfumatura, l’introduzione dei “salvo che”, il vero rischio. Ci sono mani abili dalle parti del governo, in questo tipo di perfezionamento del testo. Annacquare il vino con il ritocco formale, sapendo che in diritto la forma è sempre sostanza, questo sarebbe il nocivo baco nella mela della riforma. E faranno bene i (tanti, a dispetto delle apparenze) sinceri riformatori presenti in parlamento a tenerne conto. E a diffidare.