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di Agnese Pellegrini

Avvenire, 22 settembre 2023

Gentile direttore, all’indomani dell’ennesimo suicidio in carcere avvenuto a Regina Coeli, mi permetto di esporre il mio pensiero riguardo questa casa circondariale, che sorge nella bellissima zona di Trastevere a Roma. Sono volontaria penitenziaria da sette anni, di cui due trascorsi proprio a Regina Coeli, percorrendone ogni settimana i corridoi. E penso che, nell’attuale discussione sull’ipotesi di chiusura, si guardi il dito, invece che la luna.

Le Case circondariali periodicamente tornano all’attenzione dei media per le loro carenze strutturali. Ma c’è un problema di fondo: questi istituti spesso non possono essere ristrutturati, perché la maggior parte di essi è in edifici antichi, quasi sempre sotto vincolo artistico. Penso a Regina Coeli, che nasce in un ex monastero, ma anche a San Vittore a Milano... Se, sorgendo in centro, possono essere parte integrante della città e della società, le difficoltà strutturali - che comunque non di rado esistono anche in case di reclusione più nuove, ricavate nelle periferie - sono imbarazzanti e coinvolgono non soltanto la popolazione detenuta, ma anche tutti coloro che, a vario titolo, in carcere lavorano, operano, svolgono volontariato.

Quasi sempre, per noi donne, volontarie o operatrici, trovare un bagno degno di questo nome è un’impresa che ci costringe a cambiare sezione e a percorrere corridoi a non finire... Per non parlare poi di quante insegnanti ho visto rimanere con cappotto, sciarpa e guanti, perché in inverno il freddo ti entra nelle ossa e gestire una lezione in quelle condizioni è davvero terribile. Ma anche i medici e gli infermieri spesso sono costretti a lavorare in condizioni precarie...

Quindi il problema non è soltanto dei detenuti, ma anche di chi in carcere trascorre buona parte della giornata, in primis la polizia penitenziaria. Eppure, il problema non è tanto la riqualificazione strutturale dell’edificio, ma la scelta di fondo di che cosa fare del carcere. In questa prospettiva, trovo poco logica anche la proposta sul riutilizzo delle caserme. Le caserme sono altrettanto strutturalmente inadeguate. Di volta involta, vengono opzionate per istituti penitenziari o per alloggi per migranti, magari per i minori non accompagnati... Ma per renderle adeguate a un simile utilizzo occorrerebbe in molti casi un investimento così ingente che varrebbe la pena realizzare edifici nuovi. E qui affiora l’altro aspetto: servono davvero nuove carceri? Ovviamente, chi sbaglia va punito.

Tuttavia, i soldi potrebbero essere meglio impiegati destinandoli a interventi educativi e misure alternative. Ad esempio, si potrebbero acquistare braccialetti elettronici, di cui c’è sempre carenza; ad esempio, andrebbero resi più efficienti i tribunali di sorveglianza; ad esempio, si potrebbe far sì che gli istituti siano realmente trattamentali e non soltanto punitivi...

Alcuni dei ragazzi che ho incontrato in questi anni avevano un residuo pena di cinque o sei mesi. Queste persone potrebbero (e dovrebbero), con le giuste misure, usufruire di percorsi alternativi alla detenzione. Si potrebbe e dovrebbe potenziare il sistema dell’offerta di lavoro per ex detenuti, il che eviterebbe in molti casi anche le recidive. E vogliamo parlare dei malati, in particolare di quelli psichiatrici?