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di Tiziana Maiolo

Il Dubbio, 16 agosto 2023

Ci sono norme che andrebbero trattate con cura, ma la faciloneria diventa la regola. Invece di allargare il perimetro delle carceri, estendendolo anche alle caserme, perché non pensare di restringere quelle mura? E di pensare concretamente alla prigione solo come ultima spiaggia per ricucire quello strappo del patto sociale che è la commissione di un reato?

Ci sono tanti modi per ridurre quell’affollamento che produce, prima ancora che disagio, soprattutto solitudine e abbandono. Si potrebbe pensare a un indulto, e sono vent’anni che non se ne parla. Ammesso che questa maggioranza sia in grado di una svolta culturale, soprattutto per il partito di Giorgia Meloni, che non pare più avere in sé quelle contraddizioni che nel 2003, quando fu votato “l’indultino”, attraversavano Alleanza Nazionale, in cui molti parlamentari come Enzo Fragalà, Sergio Cola e Altero Matteoli erano favorevoli anche all’amnistia.

Ma il primo motivo per cui le carceri italiane sono sempre stracolme è che si arresta troppo e con troppa facilità. L’articolo 274 del codice di procedura penale che prevede le tre ipotesi di pericolo di fuga, di inquinamento delle prove e di reiterazione del reato come condizione per la custodia cautelare, non è stato scritto con la stessa superficialità con cui viene applicato. Spesso appiccicando un bel reato associativo per rendere necessarie le manette. Sono norme che andrebbero trattate con cura, ma la faciloneria sembra troppo spesso la regola. Se consideriamo che, secondo i dati del Garante delle persone private della libertà Mauro Palma, almeno 8.000 persone sono in carcere in attesa del primo giudizio, e che altre 7.000 attendono il secondo o il terzo grado, perché queste 15.000 persone devono stare recluse? Siamo proprio sicuri, visto che sono tutti innocenti secondo la Costituzione, che siano tutti così socialmente pericolosi? È una questione di mentalità, o meglio di cultura, di pubblici ministeri, ma troppo spesso anche di giudici. Troppe ordinanze abbiamo letto, che erano solo una ricopiatura delle richieste del pm, che a sua volta si ispirava, fino alle virgole, alla relazione della polizia giudiziaria.

Il ministro Carlo Nordio potrebbe cominciare a mettere il naso lì dentro, alle modalità per cui, nella fase delle indagini preliminari, si senta così tanto la necessità di stringere i polsi dell’indagato. Se a questo aggiungiamo il dato statistico per cui il 75% delle prescrizioni del reato avviene proprio in questa fase processuale, vediamo come lo sbattere qualcuno in galera con così tanta superficialità sia diventato quasi l’unico metodo per condurre le indagini, fino a lasciarle morire, spesso, di scadenza dei termini.

Ma c’è qualcosa di ancor maggiormente tragico nella disattenzione permanente della politica nei confronti delle carceri. Salvo risveglio brusco nelle estati dei suicidi. La popolazione in detenzione è molto cambiata negli ultimi anni, ci racconta Rita Bernardini, la presidente di Nessuno tocchi Caino che il ministro farebbe bene ad assumere velocemente al vertice dell’ufficio del Garante per i diritti dei detenuti. Ci sono tanti ragazzi tra i 18 e i 25 anni, i “giovani adulti”, con problemi psichici e di tossicodipendenza. Tenerli chiusi nelle carceri italiane è soprattutto un delitto, una condanna a morte. Sono loro, e le donne, le persone più a rischio. Non solo a rischio suicidio, ma proprio per il pericolo di vedere la propria vita frantumarsi, involversi in un giorno dopo giorno che a un certo punto passa dalla disperazione all’indifferenza.

Questi ragazzi vanno tolti immediatamente dal carcere, qualunque cosa abbiano fatto, di qualunque reato siano accusati o condannati. È vero che l’Italia è molto carente sul piano dell’assistenza sociale. Ma ci sono tanti “Don” con le loro strutture di aiuto, e ci sono anche tanti bravi sindaci e assessori pieni di capacità e voglia di fare. Date a tutti costoro risorse e aiuti, e anche alle famiglie, nei casi in cui sia possibile reinserire qualcuno in custodia domiciliare. Questo è lo spirito riformatore che ci aspettiamo da un ministro liberale, anche se capiamo le buone intenzioni nel discorso sul reperimento delle caserme in disuso, anche per differenziare il tipo di detenzione. Lo capiamo, ma ne sappiamo anche misurare le difficoltà di reperimento fondi, tempi di realizzazione del progetto e necessità di assunzione e formazione di nuovo personale. E intanto, quanti suicidi e quante vite buttate mentre il ministro si arma di cazzuola per cominciare a ristrutturare?

E infine. Se c’è stato qualcosa di buono fatto dal premier Conte e il guardasigilli Bonafede è stato quel provvedimento che gli stolti ancora oggi chiamano “svuota-carceri”, dando disvalore al concetto, e che ha invece probabilmente salvato molte vite umane nei giorni dell’epidemia da covid. Il merito maggiore di quella sospensione di pena per i detenuti più anziani e malati va ai giudici di sorveglianza, che quel provvedimento avevano sollecitato. Tutto sparito ormai, compreso l’aumento del numero di videochiamate con la famiglia concesso ai detenuti nello stesso periodo. Ma perché?

Se a tutto ciò si aggiungesse una più frequente applicazione della norma sull’alternativa al carcere a chi deve scontare una pena, o un fine pena, inferiore a tre anni (sono circa 6.000 detenuti), ecco che magicamente il problema dell’affollamento sarebbe risolto. Ma c’è una vera volontà politica? L’Italia è già stata ripetutamente condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per le condizioni disumane delle sue carceri. Gli ultimi due Presidente della repubblica, Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella, oltre allo stesso Papa, hanno rivolto al Parlamento appelli accorati. Ma nulla cambia mai, chiunque governi e chiunque sia all’opposizione. Possibile che, rispetto alla civiltà di un Paese che dipende anche dalle condizioni delle proprie carceri, prevalga sempre quel piatto di lenticchie del calcolo elettorale?