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di Luigi Manconi

La Repubblica, 20 novembre 2023

Carlo Nordio per anni si è detto contrario alla bulimia normativa. Poi è diventato ministro della Giustizia e ora fioccano nuovi reati e pene più severe. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio rivela, palesemente, una scissione della personalità. Nelle sue vite precedenti (di eccellente magistrato, prima, e di editorialista di fede liberale, poi) aveva criticato reiteratamente due delle principali tendenze della produzione legislativa italiana, entrambe attribuibili a una sorta di bulimia normativa. Ovvero, l’ampliamento del numero dei reati all’interno di Codici già pesantemente gravati, e l’innalzamento delle pene per reati già presenti nel nostro ordinamento. In più circostanze, Nordio aveva evidenziato, con ricchezza di argomenti e di dottrina, come quelle due tendenze si mostrassero totalmente fallaci sul piano dell’efficacia e dei risultati conseguiti; e avessero come sola conseguenza certa un ulteriore affaticamento della macchina della giustizia e l’incremento della sua cronica lentezza. Ora, di fronte alle norme penali varate dal governo in 12 mesi il ministro si comporta come un Gasparri qualsiasi: ne fa l’elogio e ne annuncia il successo, con linguaggio felpato e qualche sorriso in tralice.

In realtà, più che un pacchetto sicurezza, il disegno di legge approvato giovedì richiama un palinsesto televisivo. Le nuove norme ricalcano e trascrivono in forma di articolo di codice tutte le tematiche prevalenti (talvolta fino al parossismo) nei programmi radio-televisivi ispirati e gestiti dalla destra di governo. L’occupazione abusiva di case, i borseggi in metropolitana, le donne incinte per le quali si differisce la pena, la mobilitazione di Ultima Generazione che blocca il traffico e scrive sui muri, la decadenza di zone dei centri storici e la desolazione delle periferie: sono, come si dice, altrettanti “temi in scaletta” dei talk show radio-televisivi che mettono in scena umori e malumori, frustrazioni e rancori degli strati sociali meno tutelati. Problematiche vere, talvolta drammatiche, ma che i provvedimenti assunti non sembrano in grado in alcun modo di affrontare, risolvendosi in messaggi ideologici e in mera propaganda.

Il disegno di legge in 31 articoli si focalizza sul “nemico opportuno” (la definizione è del sociologo Loïc Wacquant), quello più facile da individuare e più remunerativo da colpire sul piano dei consensi: la marginalità e la devianza sociale. Sono, infatti, principalmente i gruppi più deboli i destinatari elettivi delle misure introdotte, che vanno a sanzionare, tra l’altro, i cosiddetti “reati di sussistenza”. Così è per i daspo urbani, i divieti di accesso a luoghi ad alta frequentazione (stazioni, porti, metropolitane) per quanti abbiano precedenti per furto o rapina commessi in quegli stessi spazi. E così è anche per il nuovo delitto di occupazione abusiva d’immobile, per cui sono previste pene che ammettono, addirittura, la custodia cautelare e le intercettazioni.

Anche per quanto riguarda l’impiego dei minori nell’accattonaggio, che esige - sia chiaro - un contrasto robusto, la sola misura ipotizzata è di carattere penale: nulla di preventivo che consenta di intervenire sulla causa, prima ancora che sul sintomo, del problema. Viene colpita anche la manifestazione del dissenso: diventa, infatti, reato il blocco stradale che sia previamente organizzato (come se questo di per sé determinasse maggiore ostacolo alla circolazione) e che risulti particolarmente “allarmante”.

È inevitabile che una norma dai contorni così sfuggenti si presti ad applicazioni discrezionali tali da mettere a rischio lo stesso esercizio di diritti costituzionalmente garantiti, anche quando non si arrechi alcun danno a terzi. Non mancano, poi, le aggravanti per chi imbratta beni delle forze di polizia o di altri soggetti pubblici per lederne il decoro, e gli interventi sul terreno delicatissimo del sistema penitenziario.

Da un lato, si incrimina non solo l’organizzazione o la partecipazione, ma anche l’istigazione alla realizzazione di rivolte in carcere (o nei centri per migranti) con “scritti” diretti ai detenuti; dall’altro si esclude l’obbligatorietà del rinvio dell’esecuzione della pena nei confronti di donne in stato di gravidanza o con figli sotto i tre anni, che potranno dunque finire in carcere. Per quanto riguarda la possibilità per gli appartenenti alle forze di polizia di portare anche fuori servizio armi non di ordinanza, basti il severissimo giudizio espresso su questo giornale da Armando Spataro, ex Procuratore della Repubblica di Torino.

Complessivamente, d’un colpo solo, vengono introdotte tre nuove fattispecie penali e una miriadi di aggravanti. A conclusione di un anno di attività del governo che ha alacremente lavorato in questa direzione, intervenendo su: organizzazione di rave illegali (pena fino a sei anni); reato universale di gestazione per altri (in prima lettura, pene fino a due anni); omicidio nautico (pena fino a dieci anni); istigazione all’anoressia aggravata dalla minore età (reclusione fino a quattro anni); dispersione scolastica (aumento della pena fino a due anni per i genitori); incendio boschivo (pena fino a due anni); occupazione abusiva di immobili (innalzamento della pena fino a due anni); pene fino a cinque anni per spaccio e possibilità di custodia cautelare in carcere per i minori. Certo, si tratta di questioni assai gravi, talvolta capaci di suscitare allarme sociale e senso di insicurezza presso gli strati popolari meno garantiti. Ma quello che qui si contesta è l’efficacia delle misure adottate e la strategia complessiva che rivelano, tante volte smentita dalla storia. Tutto questo in un Paese, il nostro, dove gli omicidi volontari registrati nel 1992 erano 1.476 e, trent’anni dopo, sono 314.