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di Shadi Albairuti*

 

L'Espresso, 5 aprile 2020

 

Guardo l'Europa preoccupata per il contagio. Penso ai mesi della mia vita che ho provato a dimenticare. È una storia che parte da lontano, parte ad Hama, la mia città di origine, nel 1982. La gente della mia città in piazza contro Hafiz al Asad, il padre di Bashar. Ricordo mio padre farci una carezza sul viso e uscire in strada. Poi ricordo l'assedio e la paura. Poi ricordo il dolore di mia madre e il nostro. Furono torturati a migliaia, uno degli uomini arrestati era mio padre. Lo ricordo sulla porta che ci saluta prima di andare a protestare e poi in un sacco bianco, cadavere.

Avevo sei anni nel 1982, quando ho perso mio padre. Cresci solo con la memoria della perdita e il desiderio di vendicarti. Crescevo. E più pensavo a mio padre e cercavo nella testa il suo volto, più Assad ricopriva le nostre città con la sua immagine. Si può dire che io abbia seguito le orme di mio padre. Ho studiato economia a Dubai, lavorato a Londra, poi nel 2011 all'inizio della rivoluzione sono tornato a casa. La protesta mi chiamava, mi chiedeva di esserci. Non so se l'ho fatto più per me o per onorare la memoria di mio padre. Fatto sta che da Londra sono tornato a casa, a Hama. E quell'estate, l'estate del 2011 sono sceso in piazza, come fece mio padre.

Se dovessi descriverti il giorno in cui mi sento di essere nato, la mia seconda data di nascita, è quel giorno. Il 3 luglio 2011, quando ho visto le facce dei soldati di Assad che non credevano ai loro occhi di fronte al fiume di gente in strada.

Cosa accade se il Coronavirus arriva in un paese in guerra? Cosa accadrebbe in caso di contagio in un campo profughi? Abbiamo chiesto alle persone che in questi anni hanno accompagnato i racconti de L'Espresso nelle zone di crisi del Mediterraneo, Medio Oriente e Nord Africa, di raccontarci in prima persona cosa significhi in un paese in conflitto la prospettiva di una epidemia. Queste le loro parole

I servizi segreti di Assad hanno scoperto in fretta che ero tra gli organizzatori della rivolta e mi hanno prelevato a casa e confinato in una prigione. La prima settimana mi hanno privato del cibo e torturato con le scosse elettriche insieme ad altri detenuti. Poi mi hanno spostato in una cella singola e buia. Mi appendevano al soffitto, con i polsi legati. E restavo appeso così per ore, nudo. Dico ore ma non so quantificare, era un tempo indefinito che passavo in stato di semi incoscienza, quando ero sveglio pensavo a mia moglie che allora era incinta del nostro secondo figlio. Ero solo, tranne quando entrava uno di loro. E quando sentivo il rumore della porta che si apriva sapevo che avrebbero usato ancora cavi elettrici. Chiudevo gli occhi e pregavo Allah che durasse il meno possibile.

Ho scoperto solo quando sono uscito, dopo sei mesi, che ero finito nel carcere di Palmyra. Il carcere in mezzo al deserto, per gli oppositori politici. Escono vivi in pochi. Nel mio caso solo per soldi. La mia famiglia ha venduto tutto ciò che aveva, corrotto un alto comandante delle forze armate e mi ha salvato. Ho passato sei mesi in un centro riabilitativo in Turchia. Non muovevo più le gambe. Vomitavo ogni volta che provavo a mangiare. Incubi ogni notte. Poi ho cominciato a fare quello che potevo per la rivoluzione, finché ho potuto entrare in Siria. E poi sono scappato via.

Da allora, da quando ho messo in salvo la mia famiglia in Europa, mi dedico a sensibilizzare le persone sulle condizioni dei detenuti politici in Siria. Provo a tenere i contatti con centinaia di famiglie che aspettano da anni di avere notizie dei propri cari. Figlie che contano i giorni. Qualcuno, come Wafa Mustafa, ne ha contati 2464, sette anni in attesa di una notizia su suo padre.

Nelle carceri del regime, oggi, ci sono ancora decine di migliaia di persone. Oppositori politici, manifestanti, attivisti. Spariti, semplicemente prelevati, rapiti, e spariti. I sopravvissuti stanno subendo quello che io ho subito per sei mesi a Palmyra nel 2011. E nelle carceri, come Saydnaya, se non si muore di torture si muore di sete. Si muore di fame. Si muore di infezioni. Si muore di diarrea. Si muore perché non c'è spazio per respirare, tanto sono sovraffollate. Un virus come questo, in un carcere siriano, significa una condanna a morte certa. Veloce, silenziosa più del silenzio che già copre il destino di tutti i prigionieri.

Nelle carceri siriane non c'è luce. Ci sono esseri umani lasciati nudi in mezzo ai propri escrementi. Donne stuprate sistematicamente. Ecco, in un carcere siriano non credo sia mai entrato un medico. Ma un contagio può entrare, può entrare velocemente, entra con l'aria e fuori, sparsi nell'esodo o costretti ancora in Siria, ci sono centinaia di migliaia di famiglie che oggi si stanno chiedendo di cosa siano destinati a morire i propri cari. Se sarà una scossa elettrica a portarli via, un'ultima bastonata fatale, o l'impossibilità di respirare, effetto del virus. Per quello non possiamo smettere di chiederci cosa ne è stato di loro, cosa ne sarà di chi non può chiedere aiuto, scappare, salvarsi.

 

*Rifugiato siriano in Olanda (a cura di Francesca Mannocchi)