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di Dario Ferrara

Italia Oggi, 12 aprile 2022

Social network da maneggiare con cura: la raccomandazione arriva dalla giurisprudenza di legittimità, soprattutto in materia di diffamazione e atti persecutori. Facebook, scrive la Cassazione in una delle prime sentenze sul fenomeno, la 37596/14, è una “gigantesca piazza immateriale con milioni di utenti nel mondo, che comunicano in settanta lingue diverse”: è facile dunque finire alla sbarra per hater e stalker telematici, mentre anche un semplice troll può perdere il posto se parla male dell’azienda. Idem vale per il fannullone che perde tempo fra post e thread invece di lavorare.

Offese senza nome. La conferma arriva dalla pronuncia più recente: rischia la condanna per diffamazione aggravata chi offende qualcuno sul servizio creato da Mark Zuckerberg anche senza fare nomi, ricorda la sentenza n. 10762/22 della Suprema corte: è sufficiente che le contumelie siano riconducibili alla persona di mira. Il reato ex articolo 595 c.p., sottolineava già la sentenza n. 16712/14, si configura a carico dell’utente del social che rivolge espressioni ingiuriose a carico di un collega di lavoro benché nel post il destinatario degli insulti non risulti indicato per nome e cognome: affinché il delitto sia integrato è sufficiente che la persona offesa possa essere identificata da un certo numero di persone, per quanto limitato, fra i visitatori del profilo “incriminato”.

E a far scattare la condanna basta il nickname dell’interessato senza che le forze dell’ordine debbano individuare l’indirizzo Ip: il titolare del profilo dovrebbe dimostrare una sostituzione di persona o l’uso illecito della sua pagina (sentenza 4239/22). Attenzione, però: non è reato l’offesa su Facebook se il destinatario è online.

Nonostante l’evoluzione tecnologica, non sono cambiati i criteri per distinguere la diffamazione dall’ingiuria commessa alla presenza di più persone, che è stata depenalizzata con l’abrogazione dell’articolo 594 c.p. ad opera del dlgs n. 7/2016. Ed è proprio la presenza, pur se virtuale, il fattore discriminante fra le due fattispecie anche ai tempi di Internet: se ad esempio l’offesa viene pronunciata durante una riunione online quando sono collegate più persone contestualmente, compreso il destinatario delle offese, si verifica la fattispecie depenalizzata. Nel caso del social network blu, quindi, bisogna verificare se la persona offesa sia online al momento in cui l’imputato scrive le frasi incriminate (sentenza 44662/21).

Non si può, poi, condannare il post di critica soltanto perché inserito in un thread di insulti nei confronti dello stesso destinatario: chi aggiunge la sua voce con uno scritto che non risulta di per sé offensivo aderisce sì alla critica nei confronti della persona presa di mira ma non anche alle forme illecite scelte dagli altri nella discussione che si dipana sulla pagina (3981/16). Compie invece reato il blogger che non cancella i post offensivi: è escluso che il titolare del diario in rete sia equiparato al direttore del giornale, ma il delitto è aggravato dall’uso del web come strumento di pubblicità: conta il mancato filtro dei commenti (n. 2929/19).

Ma il rischio più grosso è l’hate speech perché può scattare una condanna al carcere, anche se poi sospesa: per la diffamazione su Internet la pena detentiva può essere inflitta solo in circostanze eccezionali, cioè se sono lesi gravemente diritti fondamentali, come in caso di discorsi di incitazione all’odio o di istigazione alla violenza (13993/21).

Vendette punite. Passiamo a un altro classico della giungla web: la vendetta sentimentale. È punibile anche dopo l’entrata in vigore del regolamento europeo Gdpr chi crea un falso profilo della ex sul sito web porno: le nozioni di dati personali e di diffusione sono in sostanza sovrapponibili al passato e pesano l’offesa continuativa e raggiungimento di un numero indefinito di persone (sentenza 42565/19). E rischia la condanna per sostituzione di persona e violazione della privacy chi crea il profilo social con la foto di un altro: non importa che l’immagine sia stata trovata su Internet col solo intento decorativo (12062/21).

A conseguenze più gravi, però, va incontro il social-stalker: è deciso il divieto di avvicinamento alle vittime a carico dell’autrice della “persecuzione telematica” via WhatsApp e Facebook all’ex compagno e a sua figlia, arrivando perfino a pedinarli (28571/20). Ancora. È condannato l’uomo perché la ragazza è costretta a bannarlo: gli atti persecutori cominciano su Facebook e vanno avanti per sette anni, tanto che la giovane è costretta bloccare pure le chiamate in entrata del molestatore sul telefonino. I post divertenti o allusivi di un tempo sono diventati minacce e offese: l’uomo viene rifiutato proprio perché asfissiante e la vittima è costretta a cambiare abitudini, temendo che il persecutore le si materializzi davanti all’improvviso durante le ore di relax. Insomma: c’è lo stato d’ansia tipico della vittima di atti persecutori. E il reato ex art. 621 bis c.p. si configura anche senza un vero e proprio stato patologico della persona offesa (sentenza 45141/19). Di più. Commette stalking pure chi pubblica sul proprio profilo post intimidatori e minacciosi, anche se la vittima non li legge personalmente ma ne viene a conoscenza attraverso terzi (19363/21). La community internet, d’altronde, ben può rientrare nella nozione di “luogo pubblico” ex art. 660 c.p.: gli apprezzamenti a sfondo sessuale postati sulla bacheca di una ragazza integrano la contravvenzione di molestie alla persona (37596/14).

Sanzioni espulsive. Veniamo al lavoro, dove pure si alzano spesso i toni. È licenziato per giusta causa l’autore del post contro l’azienda: l’uso del social, infatti, determina la circolazione tra un gruppo indeterminato di persone del messaggio che contiene offese contro il capo e i vertici (27939/21). Anche qui per far scattare la sanzione espulsiva non serve che il lavoratore scriva a chiare lettere il nome del datore nei messaggi diffamatori che poi pubblica sulla sua bacheca, se il destinatario si può facilmente identificare (sentenza 10280/18). Occhio anche alle immagini, magari da qualcuno pubblicate su Instagram. La foto sul social inchioda al licenziamento il dipendente che dà un concerto musicale mentre è in malattia: il lavoratore, indisponibile al servizio per lombasciatalgia, viene ritratto nell’atto di suonare lo strumento in piedi e la condotta risulta scorretta perché ritarda la guarigione (6047/18). Infine, ce n’è anche per i fannulloni: licenziato il dipendente che sta sempre su Facebook. Decisiva la cronologia del personal computer, l’incolpata non può smentire i 4.500 accessi con password al social in diciotto mesi: rubare tempo alle attività di servizio costituisce una condotta “grave” perché in contrasto con “l’etica comune” e finisce per incrinare la fiducia del datore (3133/19). Nel social si entra solo con l’inserimento delle credenziali e la lavoratrice non riesce a smentire che gli accessi contestati siano riferibili a lei né contesta la navigazione in rete per motivi estranei all’ambito lavorativo.