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di Paola Balducci*

Il Dubbio, 27 febbraio 2024

Nonostante gli sforzi compiuti in passato, il sistema penitenziario italiano sta attraversando una situazione gravissima, che già in tempi non troppo lontani ha dimostrato tutta la sua drammaticità, in particolare davanti all’emergenza Covid. Negli anni sono state annunciate numerose riforme, troppo spesso solo palliative rispetto all’enormità dei problemi, e il più delle volte non le si è neppure realizzate. Il tutto nella cornice di una legislazione segnata da movimenti incostanti, che si sposta incessantemente dalla depenalizzazione al panpenalismo.

Il dibattito annoso e complesso sulla questione carceri ruota spesso intorno agli stessi temi: ampliamento degli spazi detentivi, costruzione di nuovi istituti, potenziamento delle misure alternative. In realtà tutto si rivela insufficiente se si perde di vista il vero obiettivo a cui, come ci ricorda inflessibilmente la nostra Carta costituzionale all’articolo 27 comma 3, dovrebbe tendere la detenzione: la rieducazione delle persone private della libertà personale.

Nell’ottica delle misure alternative sembra ancora muoversi il legislatore: è recente la proposta di legge di modifica della disciplina della liberazione anticipata che mira sia ad aumentare da 45 a 60 giorni la riduzione di pena, per ogni semestre di detenzione, ai fini della concessione del beneficio, sia ad introdurre per i prossimi due anni un ulteriore aumento dei giorni di “sconto” (da 60 a 75). Il tutto al fine di riconoscere e incentivare la partecipazione dei detenuti all’opera di rieducazione, favorendo così il loro reinserimento sociale.

Tuttavia, la proposta ha fatto discutere ed è destinata ad essere al centro del dibattito politico ancora per molto tempo. Tanto più che l’emergenza riguarda ormai anche la dotazione organica sia della magistratura di sorveglianza che degli operatori penitenziari, dentro e fuori degli istituti.

Emblematico è, ad esempio, il dato sul numero crescente di detenuti “liberi sospesi”, bloccati in un limbo in cui attendono di sapere se il loro destino finale sarà il carcere ovvero una misura alternativa alla detenzione.

Intanto i suicidi dietro le sbarre aumentano sempre di più, da inizio 2024 siamo già a quota 20. L’aspetto più preoccupante è che il disagio del carcere colpisce soprattutto chi è vicino al fine pena, sopraffatto dall’idea di rientrare in una società dominata dallo stigma della detenzione, vinto dalla paura di non riuscire a trovare un lavoro o anche solo di dover tornare da una famiglia che non vede da tempo. I temi riguardanti l’esecuzione penale non sono certo pochi, e non si dovrebbe mai decidere di voltarsi dall’altra parte senza affrontare la situazione: i luoghi di detenzione non dovrebbero essere un “parcheggio” in cui lasciare quanti hanno infranto l’ordine sociale. Al contrario, occorrerebbero riforme serie, concrete, sul trattamento penitenziario, sulla possibilità di incentivare dei corsi formativi in carcere, soprattutto dal punto di vista lavorativo, per favorire al meglio il reinserimento dei detenuti nella società.

E proprio in questa prospettiva risulterebbe indispensabile la presenza delle istituzioni nei luoghi di pena. Così come già avvenuto nel 2019, quando i giudici della Corte costituzionale hanno “viaggiato” nelle carceri, i principali esponenti delle istituzioni dovrebbero continuare a visitare i luoghi di detenzione per due motivi fondamentali. In prima battuta, avere contezza della reale situazione carceraria - non attraverso semplici dati statistici e numerici, ma nell’incontro con i detenuti - potrebbe portare a soluzioni legislative efficaci e mirate. In seconda battuta, la presenza delle istituzioni negli istituti di pena rappresenterebbe un fortissimo segnale per la popolazione carceraria, che troppo spesso si sente abbandonata dietro le sbarre senza prospettive.

In una situazione del genere si dovrebbe avere il coraggio di attuare riforme concrete, di riprendere senza paura anche temi spesso considerati scomodi come ad esempio l’amnistia e l’indulto. Oggi parlare di amnistia e indulto appare quasi un tabù. In realtà, l’indulto, come accadde nel 2006, potrebbe, con straordinaria velocità, ridurre la popolazione carceraria e riportare gli istituti alla normalità. Lo si può sicuramente attuare in modo da contenere, edittalmente, la sua portata, limitandolo ai reati meno gravi, ad esempio, e affiancandolo a procedure di recupero sociale realizzate mediante lavori all’esterno. In tal modo, lungi dall’essere un “peccato mortale” in grado di macchiare sia la nostra legislazione che la nostra società, l’indulto potrebbe essere la carta vincente per risolvere in fretta un problema cronicizzato e mortificante per tutti quale quello del sovraffollamento carcerario, che mette il sistema dell’esecuzione penale davanti a difficoltà oggettive e quasi insuperabili, se non con grandi sforzi e con grandi aperture sul piano della legislazione.

Occorrerebbe dunque ritrovare il coraggio - lasciando da parte qualsiasi considerazione politica e di convenienza elettorale - di affrontare concretamente e velocemente questioni così delicate, che hanno a che vedere non con semplici numeri ma con esseri umani, portatori di un vissuto, sicuramente di errori, ma che pure aspettano risposte da una società il cui grado di civiltà, come ci ricorda Voltaire, è misurabile proprio dallo stato delle sue carceri.

*Avvocata, docente di procedura penale