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di Ferruccio Pinotti

Corriere della Sera, 21 marzo 2023

Tutte le morti sospette di chi si è avvicinato al caso. Il 20 marzo 1994 la giornalista Rai e il suo operatore vennero assassinati in Somalia. Indagavano sui traffici d’armi e di rifiuti tossici. Nonostante le inchieste giudiziarie, la verità non è stata raggiunta. Mattarella: “Ferita aperta che riguarda l’intera società”. Sono trascorsi trent’anni da quel maledetto 20 marzo 1994 in cui Ilaria Alpi, romana, classe ‘61, giornalista Rai e inviata del TG3, venne assassinata a Mogadiscio, in Somalia, insieme al suo cineoperatore Miran Hrovatin classe ‘49 triestino. Eppure una verità giudiziaria, storica e processuale non è stata ancora raggiunta. Come ha dichiarato il presidente Mattarella “a trent’anni dall’agguato mortale che spezzò le vite di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, il loro ricordo è presente come nei giorni drammatici in cui la terribile notizia da Mogadiscio piombò sul nostro Paese. Erano giornalisti di valore alla ricerca in Somalia di verifiche e riscontri su una pista che avrebbe potuto portare a svelare traffici ignobili”. Significativamente, il capo dello Stato ha aggiunto: “Gli assassini e i mandanti sono ancora senza nome e senza volto dopo indagini, depistaggi, ritrattazioni, processi finiti nel nulla. È una ferita che riguarda l’intera società. Le Istituzioni sanno che non ci si può mai arrendere nella ricerca della verità”. Se questa è la posizione, netta e intransigente del presidente, cerchiamo di ricostruire i fatti a disposizione.

L’incarico della Rai divenuto inchiesta - Ilaria Alpi si recò una prima volta in Somalia nel dicembre 1992 su incarico della Rai per seguire, come giovane inviata del TG3, la missione di pace “Restore Hope”, coordinata e promossa dalle Nazioni Unite per porre fine alla guerra civile scoppiata nel 1991, dopo la caduta di Siad Barre. Della missione faceva parte anche l’Italia, che cercava di superare l riserve dell’inviato speciale Onu per la Somalia, Robert B. Oakley, legate agli ambigui rapporti che il governo italiano aveva intrattenuto con Barre nel corso degli anni Ottanta, quelli della cosidetta “malacooperazione” che dietro agli aiuti allo sviluppo celava tangenti e traffici illeciti. L’inchiesta di Ilaria Alpi e Hrovatin si sarebbe soffermata su un possibile traffico di armi e di rifiuti tossici che avrebbero visto, tra l’altro, la complicità dei servizi segreti italiani e di istituzioni italiane. Ilaria avrebbe infatti portato alla luce un traffico internazionale di rifiuti tossici prodotti nei paesi industrializzati e dislocati in alcuni paesi africani in cambio di tangenti e di armi scambiate con i gruppi politici locali.

Il precedente somalo: l’omicidio Li Causi - Il 12 novembre 93 era stato ucciso, sempre in Somalia e in circostanze misteriose, il sottufficiale del Sismi Vincenzo Li Causi, informatore della stessa Alpi sul traffico illecito di scorie tossiche nel paese africano. Alpi e Hrovatin furono uccisi il 20 marzi in prossimità dell’ambasciata italiana a Mogadiscio, a pochi metri dall’hotel Hamana, nel quartiere Shibis; in particolare, in corrispondenza dell’incrocio tra via Alto Giuba e corso Somalia (nota anche come strada Jamhuriyada, corso Repubblica). La giornalista e il suo operatore erano di ritorno da Bosaso, città del nord della Somalia: qui Ilaria Alpi aveva avuto modo di intervistare il cosiddetto “sultano” di Bosaso, Abdullahi Moussa Bogor, che riferì di stretti rapporti intrattenuti da alcuni funzionari italiani con il governo di Siad Barre, verso la fine degli anni Ottanta e successivamente, nella parte finale del colloquio, su domanda esplicita della Alpi, parlò della società di pesca italo-somala Shifco, azienda della quale lo stato italiano aveva donato dei pescherecci che furono usati molto probabilmente anche per il trasporto dei rifiuti. L’intervista durò probabilmente 2 ore e subito dopo i due giornalisti arrivarono nella postazione della redazione Rai. Ilaria Alpi salì poi a bordo di alcuni pescherecci, ormeggiati presso la banchina del porto di Bosaso, sospettati di essere al centro di traffici illeciti di rifiuti e di armi: si trattava di navi che inizialmente facevano capo ad una società di diritto pubblico somalo e che, dopo la caduta di Barre, erano illegittimamente divenute di proprietà personale di un imprenditore italo-somalo.

L’agguato - Tornati a Mogadiscio, Alpi e Hrovatin non trovarono il loro autista personale, mentre si presentò Ali Abdi, che li accompagnò all’hotel Sahafi, vicino all’aeroporto, e poi all’hotel Hamana, nelle vicinanze del quale avvenne il duplice delitto. A bordo del mezzo si trovava anche Nur Aden, con funzioni di scorta armata. Sulla scena del crimine arrivarono subito l’imprenditore italiano Giancarlo Marocchino e gli unici giornalisti italiani presenti a Mogadiscio: Giovanni Porzio e Gabriella Simoni. Una troupe americana (un libero professionista che lavorava per un network americano) arrivò mentre i colleghi italiani spostavano i corpi dall’auto in cui erano stati uccisi, successivamente portati al Porto vecchio. Una troupe della Televisione svizzera di lingua italiana si trovava invece all’Hotel Sahafi (dall’altra parte della linea verde) e filmò su richiesta di Gabriella Simoni - perché ci fosse un documento video - le stanze di Miran e Ilaria e gli oggetti che vennero raccolti.

Le indagini - Il duplice omicidio determinò l’apertura di due distinti procedimenti penali a carico di ignoti: l’uno, presso la procura di Roma, per la morte di Alpi (p.p. 2822/94 RGNR mod. 44); l’altro, presso la procura di Trieste, per la morte di Hrovatin (p.p. 110/1994 RGNR mod. 44). Una consulenza tecnica balistica, accertò che i colpi furono inferti alla giornalista a una distanza ravvicinata, alla stregua di un’esecuzione. Seguirono contrasti tra magistrati inquirenti e Procura di Roma. Il magistrato Giuseppe Pititto, in un’intervista a Famiglia Cristiana, il 23 aprile 2000 dichiarò: “Se la ragione per cui l’inchiesta mi è stata sottratta non è il contrasto tra me e De Gasperis, allora dev’essere un’altra: una ragione occulta. E ciò che è segreto, e incide su un’inchiesta giudiziaria per un duplice omicidio pregiudicando l’accertamento delle responsabilità, non può che allarmare”.

La condanna (ingiusta) di Hashi Omar Hassan - Dopo le deposizioni di alcuni somali accompagnati a Roma in veste di persone informata sui fatti, nel 1997 fu accusato dell’omicidio Alpi-Hrovatin tale Hashi Omar Hassan, riconosciuto come uno degli autori materiali del duplice omicidio, presente all’interno della Land Rover con a bordo i sette componenti del commando, armati di fucili mitragliatori Fal. Il somalo Hassan fu condannato nel 2000 a 26 anni di reclusione, grazie soprattutto alla testimonianza del connazionale Ahmed Ali Rage, detto “Jelle”. Nel corso delle udienze, tuttavia, alcuni dei testimoni auditi lasciarono intravedere particolari inquietanti intorno ai possibili legami tra l’assassinio della giornalista e i presunti traffici illeciti di armi e di rifiuti tossici che sarebbero intercorsi tra Italia e Somalia. Il sospetto è ancora più aggravato dal fatto che alcune piste potrebbero portare a ritenere che la Alpi sia stata uccisa, a causa di quello che aveva scoperto, per ordine del presidente somalo Ali Mahdi e di Omar Said Mugne (Presidente della “Shifco”, società a cui appartenevano i pescherecci, compresa la Faraax Omar sequestrata a Bosaso e su cui Ilaria stava indagando); appare quindi lecito il dubbio che Ali Mahdi possa avere avuto tutto l’interesse a chiudere le indagini offrendo come capro espiatorio una persona del suo stesso clan”

Hassan assolto - Il processo venne rifatto e il 19 ottobre del 2016 la svolta: Ashi Omar Hassan viene assolto dopo aver scontato 17 dei 26 anni che avrebbe dovuto scontare secondo la pena inflittagli. “L’uomo in carcere è innocente - dichiarò ad una troupe di Chi l’ha visto proprio lo stesso Ahmed Ali Rage, il grande accusatore di Hassan -. Gli italiani avevano fretta di chiudere il caso e mi avevano promesso denaro in cambio di una testimonianza al processo: dovevo accusare un somalo del duplice omicidio”. Il 3 luglio 2017, la procura di Roma chiede di archiviare l’inchiesta in quanto risulta impossibile accertare l’identità dei killer e il movente del duplice omicidio. Hassan sarebbe stato offerto alla giustizia italiana dal presidente somalo Ali Mahdi “come capro espiatorio” per riallacciare i rapporti tra Italia e Somalia. Lo stesso Hassan rilasciò al Corriere del Veneto un’intervista esclusiva: “Il mio accusatore venne pagato, lo Stato sapeva”.

E poi ucciso - Nel 2018 Hassan venne risarcito dallo Stato italiano con tre milioni di euro per l’ingiusta detenzione, ma una bomba sotto il sedile dell’auto del somalo lo uccise il 6 luglio 2022 a Mogadiscio. La mamma di Ilaria Luciana e il papà Giorgio Alpi non avevano mai creduto alla sua colpevolezza e avevano festeggiato la sua liberazione. Altre inquietanti sorti colpirono altre persone. Mentre poco dopo aver testimoniato in Italia, fu rinvenuto in un albergo di Mogadiscio il cadavere di Ali Abdi, l’autista di Ilaria, deceduto in circostanze mai chiarite. Starlin Arush, attivista somala, amica dell’inviata del Tg3, venne invece uccisa da un commando di sicari, nei pressi di Nairobi, nel 2003.

La Commissione d’inchiesta - Le indagini della Commissione parlamentare d’inchiesta hanno portato ad accertare i contatti che Ilaria Alpi ha avuto a fini investigativi con l’organizzazione Gladio: un membro di Gladio, Li Causi, morto qualche mese prima, era stato un suo informatore. Le indagini si sono rivolte inoltre alla morte di Mauro Rostagno e al centro Scorpione di Trapani (una sede di Gladio). Si è ipotizzato che il Centro Scorpione, dove operavano agenti dei servizi segreti di Gladio, ricevesse armi dalla società Oto Melara di Finmeccanica a la Spezia, e che queste armi fossero state inviate in Africa, dove operava la stessa organizzazione Gladio, dall’aeroporto di San Vito Lo Capo con un aereo ultraleggero non visibile ai radar. Sono state ipotizzate di recente coperture da parte dei traffici d’armi da parte di servizi segreti esteri, tutte da verificare.

La battaglia contro l’archiviazione - Nel 2017 la procura di Roma riaprì le indagini, ma ne chiese l’archiviazione qualche mese dopo: la famiglia Alpi - assistita dall’ex magistrato e ora avvocato Carlo Palermo (che negli anni 80 si era occupato dalla procura di Trento di traffici d’armi e mala-cooperazione) - si oppose e nel giugno del 2018 il giudice per le indagini preliminari dispose ulteriori accertamenti. Nel frattempo morì Luciana Alpi, la madre di Ilaria, che per 24 anni aveva guidato le campagne per chiedere la verità sull’omicidio di sua figlia. Nel febbraio del 2019 la procura di Roma chiese l’ennesima archiviazione delle indagini, nuovamente rifiutata.

La campagna “Noi non archiviamo” - Oggi l’inchiesta giudiziaria è dunque formalmente ancora aperta. Il 19 marzo scorso il deputato Walter Verini, capogruppo del Partito Democratico in commissione Antimafia, ha organizzato una conferenza stampa sul caso alla Camera dei deputati con Mariangela Gritta Grainer, portavoce della campagna “Noi non archiviamo” e con i rappresentanti della Federazione Nazionale Stampa Italiana, dell’organizzazione sindacale dei giornalisti Rai Usigrai, dell’Ordine dei giornalisti del Lazio e dell’associazione Articolo 21. Verini ha detto di aver chiesto e ottenuto un incontro con il procuratore capo di Roma, Francesco Lo Voi “per fornire tutti i tasselli utili, anzi necessari per sostanziare la richiesta di non archiviare la vicenda: ci sono gli elementi per raggiungere la verità e la giustizia”.