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di Niccolò Zancan

La Stampa, 2 febbraio 2024

Porta Alba di Costanza, Romania. Una delle carceri più terrificanti d’Europa. “Ventiquattro persone rinchiuse in una cella. Un solo bagno intasato. Una cella gelida d’inverno, bollente d’estate. Ratti, immondizia. La parola disumanità non è esagerata, dovete credermi. Attraverso le sbarre, danno da mangiare una brodaglia orrenda. Mio figlio è depresso, pensa al suicidio. È stato aggredito da un ragazzo con problemi psichiatrici. Pochi giorni fa una donna si è tolta la vita nell’area femminile. Tutti, lì dentro, soffrono. Soffrono perché sono trattati come animali. Sono voci annullate, persone cancellate. Quel carcere è lontanissimo dai parametri di civiltà che ci aspetteremmo da un Paese dell’Unione europea”.

La signora Ornella Matraxia è la madre di uno dei 2.058 italiani detenuti all’estero, secondo l’ultimo censimento della Farnesina. Il figlio si chiama Filippo Mosca, ha 29 anni, originario di Caltanissetta, è finito in carcere in Romania con l’accusa di traffico internazionale di stupefacenti. “Era partito con la sua ragazza e una coppia di amici per partecipare al Sunwaves Festival di Costanza, un raduno musicale molto conosciuto. Altri gruppi di amici erano arrivati dall’Italia e dalla Spagna. E proprio una ragazza di Barcellona ha chiesto a mio figlio l’indirizzo del suo hotel per farsi consegnare un pacchetto per cui c’era stato un disguido con Ups. Ma non erano cosmetici. Era un pacco con dentro 150 grammi di marijuana, ketamina e Mdma. Lui non c’entra niente. Dal primo giorno ho chiesto aiuto. Era maggio. Filippo mi ha telefonato piangendo, e mio figlio non piange mai: “Ti prego, portami via di qui. Qui non vivo”“. E lei, cosa ha fatto? “Ho chiamato la Farnesina. Ho chiesto aiuto. Mi hanno risposto: “Conosciamo le condizioni in quelle carceri. Stiamo seguendo la vicenda”. Ma non hanno fatto assolutamente niente”.

Storie così. Storie di estrema solitudine. Solo in quel carcere di Porta Alba sono tre gli italiani rinchiusi. Uno di loro ha gravi problemi di salute, ma anche questo per il momento non sembra bastare per favorire il suo ritorno in patria. Italiani detenuti all’estero. Come Ilaria Salis, rinchiusa in un prigione di Budapest in attesa di giudizio. Ogni caso è diverso. Ma per tutti è identica la difficoltà nel riuscire a farsi a ascoltare per affermare i propri diritti. Forse il caso più famoso è quello di Enrico Forti detto Chico, partito da Trento e rinchiuso nel “Dade Correctional Institution” di Florida City, un carcere di massima sicurezza vicino a Miami. Velista e produttore televisivo, nel 2000 Chico Forti è stato condannato all’ergastolo senza condizionale per frode, circonvenzione di incapace per l’acquisto di una struttura alberghiera e per concorso in omicidio. Ma quell’inchiesta è piena di ombre. Ci fu un momento di speranza. Quando il 23 dicembre 2020, l’allora ministro degli Esteri Luigi Di Maio fece l’annuncio: “Ho una bellissima notizia da darvi: Chico Forti tornerà in Italia. L’ho appena comunicato alla famiglia e ho informato il presidente della Repubblica. Il Governatore della Florida ha infatti accolto l’istanza di Chico di avvalersi dei benefici previsti dalla Convenzione di Strasburgo e di essere trasferito in Italia”. Ma da allora non è cambiato niente. E in una lettera recapitata al quotidiano Libero la scorsa estate, Chico Forti ha scritto: “Questi 23 anni li ho vissuti in una dimensione surreale, un po’ sogno, un po’ trance. Ad occhi aperti vedo scorrere la mia vita, incapace d’alterarne il corso. Una vita dove l’unica inalienabile libertà (assolutamente apprezzata, per carità) è poter utilizzare la mente, fortunatamente ancora lucida, poter esprimere per iscritto i miei pensieri “chainless”, ovvero liberi da catene”.

Qualcuno ce l’ha fatta a liberarsene, di quelle catene. Per esempio, Amina Milo detenuta per 113 giorni in un carcere del Kazakistan per traffico di droga e poi prosciolta. Il 29 novembre 2023 ha potuto riabbracciare la sua famiglia a Lecce. Ma ci sono quelli che non sono tornati e non torneranno più. Simone Renda, bancario pugliese, torturato a morte in un carcere messicano a Playa del Carmen. Oppure Claudio Castagnetta, partito dalla Sicilia e morto con la testa fracassata in un penitenziario canadese senza che nessuno abbia mai capito perché. “Non aveva precedenti penali e la vicenda pone diverse domande che restano ancora senza risposta”, scrissero allora i giornali di Montreal. L’ultimo, in ordine di tempo, è Daniel Radosavljevic, italiano di 20 anni residente a Rho, morto il 18 gennaio 2023 in un carcere francese a Grasse. Era stato arrestato per non avere rispettato l’alt a un posto di blocco. Secondo la versione ufficiale si sarebbe impiccato, ma secondo alcune testimonianze è stato picchiato. E infatti aveva una ferita alla testa e una al costato, un mignolo rotto e le unghie spezzate.

Nulla può essere più lontano da casa di una cella in una terra straniera. In Germania 713. In Francia 230. In Spagna 229. In Belgio 157. E poi, ancora: 33 in Brasile, 26 in Argentina, 24 nella Repubblica Dominicana, 11 in Tunisia, 7 negli Emirati Arabi. Ancora e ancora. A ogni numero corrisponde la vita di una persona, la sua storia di totale disperazione. Come il caso di Fulgencio Obiang Esono, un ingegnere partito da Roma e condannato a 60 anni con l’accusa di aver preso parte a un colpo dio stato in Guinea Equatoriale. Ora sta nel carcere chiamato “la Spiaggia Nera” di Malabo, descritto come “un buco umidissimo”. E anche lì il tempo passa indifferente, un giorno dopo l’altro, incubo vero su questa terra.