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di Elisabetta Soglio

Corriere della Sera, 24 marzo 2024

Crescono i suicidi fra i giovani, la psicoterapeuta Chiara Gatti si occupa delle famiglie. Un testo sul “metodo Emdr” per riparare l’esistenza. Il ruolo della comunità educante. Non esiste un nome per indicare un genitore che perde un figlio. Esiste solo un dolore devastante. Se poi quel figlio si è tolto la vita, il dolore diventa ancora più insopportabile perché si unisce a domande, sensi di colpa, sentimenti che opprimono e stravolgono mente e corpo. Chiara Gatti, psicologa e psicoterapeuta, dal 2017 segue questi genitori in un percorso di ripresa della propria esistenza e le richieste di aiuto che le arrivano da tutta Italia sono sempre di più: il suicidio è la seconda causa di morte per i giovani fra i 12 e i 34 anni, dopo gli incidenti stradali (a loro volta spesso legati a condotte a rischio tenute per rispondere ad un disagio intimo e incomunicabile). Allarmanti dati scientifici hanno evidenziato un aumento dei tentativi anche fra pre-adolescenti e secondo l’Organizzazione mondiale della sanità nel mondo si toglie la vita una persona ogni 40 secondi.

Non solo numeri - I numeri non descrivono però quello che accade nelle famiglie, ai “sopravvissuti” a un evento così tragico. E Gatti su questo ha scritto il saggio “Emdr e riparazione transgenerazionale” partendo dalla richiesta di una mamma, Elena: “Dottoressa, racconti la mia storia, perché voglio aiutare alte mamme a riprendersi in mano la propria vita”. Elena sta accompagnando Chiara Gatti in diverse città per presentare il libro, offrendo la propria testimonianza: un incontro virtuoso nato dalla tragedia. “Mi avevano contattato il giorno dopo quella scoperta drammatica, ero in casa loro per aiutare a dare la notizia al fratello più piccolo e per sostenere questi due genitori. Poi Elena ha cominciato a venire nel mio studio: all’inizio stava talmente male che veniva letteralmente sorretta da due persone perché questo dramma devasta oltre alla psiche anche il corpo. Abbiamo iniziato una terapia che fa ricorso al metodo Emdr”. Nel libro proprio Elena racconta il calvario e il lungo lavoro interiore: “Tante cose sono cambiate nella mia vita, soprattutto sono cambiata io, diventando radicalmente un’altra persona. E non è un caso che usi ora la parola rinascita. Per quanto possa apparire inverosimile, e forse per alcuni anche inaccettabile, oggi mi sento profondamente migliore e più ricca di allora”.

“Un trauma - osserva Gatti - annichilisce sempre le capacità di un individuo di affrontare le situazioni, figuriamoci la morte di un figlio che sembra dichiarare al mondo il fatto che tu non hai saputo capirlo e proteggerlo”. Ovviamente non è così: “Nella maggior parte dei casi quella estrema non è una libera scelta ma una sorta di via di fuga da una sofferenza senza nome che viene da lontano, una sofferenza che diventa soverchiante e ingestibile. Paradossalmente è un disperato tentativo di preservare la vita sottraendosi ad un dolore intollerabile, incompatibile con la vita stessa”.

Che tipo di lavoro si può fare con un genitore? “La prima parte è elaborare tutte le memorie traumatiche relative alla notizia della morte del figlio e tutto quello che lì si collega. Poi c’è una seconda parte che è quella riparativa: anche se continui a portarti dentro le conseguenze di questo tsunami di dolore, un poco alla volta riprendi a leggere, vedere persone, diventare supporto per gli altri. Elena oggi è una persona che non fatico a definire solare e la sua scelta di riprendersi la vita è stata lucida anche nei confronti del figlio perché non è giusto che l’ultima parola che lo descriva sia suicidio”.

Gatti analizza anche i condizionamenti di questa società “che mette il bavaglio alle sofferenze dei giovani. Ragazze e ragazzi hanno addosso una enorme pressione per il successo e per l’apparire che coinvolge tutti e c’è una totale impreparazione alla fatica, all’insuccesso, al fallimento. E poi abbiamo il mito del “se vuoi puoi” che non rafforza i nostri figli, ma alimenta i loro silenzi perché dovrebbero dirci “io non ce la faccio”. Altro tema è quella di una intera comunità educante, dalla scuola alle realtà sportive, totalmente impreparata, quando ne viene colpita, a gestire queste situazioni: l’unica risposta è spesso un silenzio imbarazzato e impotente. “Il verificarsi di un evento così grave - osserva Gatti - è una opportunità unica per parlare con i ragazzi facendo loro domande, chiedendo come stanno e cercando di far entrare la luce nelle stanze e nei pensieri segreti dove si crea e si amplifica la sofferenza”. Gatti è mamma di tre figli: “E per me è un privilegio lavorare con questi genitori, persone che arrivano con un dolore composto, sordo, provano quasi vergogna per quanto avvenuto, c’è uno stigma prodotto dagli altri ma a volte è lo stesso genitore che a volte si autostigmatizza. Ma sono persone che mi aiutano a crescere e cresco con loro”.