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di Ugo Magri

La Stampa, 3 ottobre 2023

Il capo dello Stato non si pronuncia, ma chi lo conosce non ha dubbi. Una premier che rampogna i giudici di Catania, che li addita alla pubblica gogna, che scaglia contro di loro l’accusa di favorire l’immigrazione clandestina per aver cancellato un provvedimento del questore, questa drammatizzazione violenta è l’esatto opposto di quanto il Quirinale poteva augurarsi nell’attuale momento, con tutti i guai che attraversa l’Italia. Ci mancava solo l’aggressione del governo alla magistratura, presidente del Consiglio in testa. Mattarella, come è noto, non vuole risse. Ritiene che uno spirito di leale collaborazione debba ispirare i rapporti tra poteri della Repubblica; ancora ieri mattina l’ha ribadito nel suo discorso fuori programma, senza testi scritti davanti, al Festival delle Regioni che s’è svolto a Torino.

Il capo dello Stato - per dovere di cronaca - parlava di autonomie, non di magistratura, tantomeno di immigrazione; aveva in mente la complicata dialettica tra visioni centraliste e spinte federaliste, tra sovranità nazionale e dimensione europea con cui deve fare i conti la stessa maggioranza di centrodestra. Ma senza dubbio si sarebbe espresso allo stesso modo, avrebbe rivolto il medesimo appello all’unità della Repubblica se fosse intervenuto a un consesso di toghe o davanti al plenum del Csm, quando lo presiede. Serve rispetto reciproco, avrebbe detto Mattarella, le invasioni di campo non portano da nessuna parte. I magistrati dovrebbero limitarsi ad applicare le leggi, rifuggendo dalla giustizia “creativa”; a sua volta la politica farebbe bene a trattenere le pulsioni nei confronti delle sentenze, specie quando ancora pendono procedimenti di appello (come nel caso di Catania) che potrebbero correggere il primo verdetto del tribunale: non si contano più, ormai, le occasioni in cui il Garante della Costituzione ha ribadito questi ovvii principi su cui poggia la democrazia liberale, fondata sulla separazione dei ruoli, sui pesi e contrappesi anziché sulle campagne mediatiche fondate sull’ossessione di trovarsi a tutti i costi un nemico per giustificare le promesse impossibili.

Rammentare i mille richiami presidenziali, dopo il post su Facebook di Giorgia Meloni, è tutto tranne che superfluo. Il Colle ha scelto un profilo basso, prudente, evitando di intervenire con moniti o bacchettate che avrebbero esasperato gli animi e aggiunto benzina sul fuoco, effetto opposto a quello desiderato. Mattarella non ha pronunciato ieri mattina una sola parola al riguardo. Ma chi frequenta i palazzi, e ne percepisce gli umori, ha pochi dubbi: randellare i giudici che si mettono di traverso è considerato, ai piani alti della Repubblica, un atteggiarsi fuori luogo, inopportuno, contrario all’Abc del galateo istituzionale; le polemiche contro singole sentenze suonano come minaccia all’equilibrio dei poteri; con le maniere forti si rischia di riportare indietro le lancette della storia facendo della giustizia, nuovamente, quel campo di battaglia che è stato per oltre un ventennio, lasciandoci in eredità cumuli di macerie. È questo che si desidera ottenere?

Nessuno può escludere che Mattarella, al momento opportuno, faccia pesare il suo punto di vista, magari sotto forma di “moral suasion”, di esortazione a mantenere i nervi saldi nonostante le elezioni europee siano ormai alle porte (e, con la campagna elettorale, l’eterna tentazione di trascinare il Quirinale nella mischia). Da poco si sono spenti gli echi delle battaglie estive intorno alla Riforma Nordio, che cancella l’abuso d’ufficio, stringe le maglie delle intercettazioni, frena l’applicazione delle misure cautelari, vieta il ricorso in appello contro i proscioglimenti da certi reati: misure controverse a dir poco. Sul provvedimento erano emerse svariate criticità, con i magistrati in guerra e il ministro Guardasigilli nella bufera; il presidente della Repubblica aveva messo la firma in calce al ddl contando sul dibattito parlamentare e sulla disponibilità della premier che, dopo un colloquio a quattr’occhi, aveva promesso un supplemento di riflessione. Ogni qualvolta se ne presenta la necessità, Mattarella dà prova al Paese (e allo stesso governo) di remare dalla parte dell’Italia, giustizia compresa. Ma ogni pazienza ha un limite e non va superato.