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di Donatello Cimadomo*

Il Riformista, 27 aprile 2024

Le carceri sono fatiscenti e piene fino all’inverosimile, gli agenti della polizia penitenziaria finiscono per essere reclusi con i reclusi. Occorre che a questa consapevolezza si accompagni un’altra cosa: vedere (e rivedere) le carceri per rendersene conto, come diceva Calamandrei. Seneca ha messo la vita su un piano inclinato, dal quale si scivola via in un attimo perché la via libertatis, la via d’uscita è sempre aperta. I dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e del Consiglio d’Europa evidenziano come in Italia ci siano pochi suicidi in libertà, tanti nelle carceri, con numeri in un crescendo sempre più allarmante; una protesta di vita, direbbe Pavese.

Il thema suggerisce di verificare attentamente eventuali rapporti tra la via libertatis ed il ruolo della Magistratura di sorveglianza. Ora, è fin troppo evidente riscontrare che la fotografi a delle carceri segni un momento di crisi, senza per ciò legittimare conclusioni semplicistiche ed inaccettabili. Proviamo a proporne alcune, spero, condivisibili. Se Voltaire affermava che il grado di civiltà di un popolo si misura osservando le condizioni delle sue carceri, l’Italia non è certamente messa bene.

Ne sono conferma le plurime condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo per trattamenti inumani e degradanti generalizzati. Carenze strutturali e di organico della polizia penitenziaria e della assistenza psicologica nonché sovraffollamento sono alcuni dei tratti di un “sistema” caratterizzato, peraltro, da riforme legislative con ragion d’essere ispirata dalla mera repressione; tra queste, l’ampliamento del catalogo dei reati, definitivi ostativi, di cui all’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario ed il “carcere duro” previsto dal successivo art. 41-bis.

In queste condizioni, non sono pochi gli ostacoli ad una equa esecuzione penitenziaria, che dovrebbe declinare la finalità rieducativa della pena ed il necessario ripudio dei trattamenti contrari al senso di umanità, come previsto dall’art. 27 della Costituzione, e non essere ispirata da castigo umiliante e da negazione della speranza. Come si vede, i piani sono diversi, non sovrapponibili. Da una parte vi sono le scelte politiche che determinano le carenze alle quali si è fatto prima cenno e che mettono la pena al centro del sistema, dall’altra il controllo proprio della Magistratura. Che la Magistratura possa, però, difettare di sorveglianza è più di una suggestione, sebbene la stessa non possa essere chiamata a svolgere un ruolo di supplenza.

L’art. 69 dell’ordinamento penitenziario prevede, tra l’altro, che il Magistrato di sorveglianza vigili sulla organizzazione degli istituti e di pena e prospetti al Ministro della giustizia le esigenze dei vari servizi, con particolare riguardo all’attuazione del trattamento rieducativo; che eserciti la vigilanza diretta ad assicurare che l’esecuzione della custodia degli imputati sia attuata in conformità delle leggi e dei regolamenti; che impartisca disposizioni dirette ad eliminare eventuali violazioni dei diritti dei condannati e degli internati.

Si tratta di una competenza funzionale assai rilevante, finalizzata anche a monitorare le condizioni delle carceri tali da integrare i presupposti di atti di violenza e di maltrattamenti, ma non sovrapponibile - sic et simpliciter, quale inutile doppione - alla funzione di vigilanza spettante al Garante dei diritti delle persone private della libertà, non fosse altro per i poteri di cui dispone il Magistrato di sorveglianza per far cessare le violazioni in atto, essendo l’organo deputato alla cognizione dei reclami giurisdizionali.

Il Magistrato di sorveglianza può - ed ha le competenze e gli strumenti per - essere un po’ come il pastore in mezzo al proprio gregge con l’odore delle pecore, direbbe Papa Francesco. Così, le auspicabili riforme strutturali e di organico sembrano essere il primo passo per assicurare un trattamento penitenziario rispettoso dei bisogni e delle motivazioni della persona.

Ma non basta: fronteggiare il sovraffollamento è necessario ma non sufficiente per segnare il cambio di passo culturale, che richiede anche una maggiore presenza dei Magistrati nelle strutture penitenziare che dovrebbero anche ospitare le aule per le udienze per i procedimenti di sorveglianza. Il percorso di reinserimento sociale del condannato esige, poi, la rimozione, soprattutto con riferimento alle pene detentive brevi, degli ostacoli alla concessione dei benefici penitenziari, nonché l’offerta, anche con l’ausilio delle associazioni di volontariato, di attività scolastiche, lavorative, sportive e ricreative, e, ancora, la possibilità di coltivare le relazioni familiari ed affettive; non ultima, la giustizia riparativa quale strumento di eliminazione delle cause del conflitto tra autore del reato e vittima e, anche, di ricomposizione di un legame sociale. Si può dire, insomma, che le carceri sono fatiscenti e piene fino all’inverosimile e che gli agenti della polizia penitenziaria finiscono per essere reclusi con i reclusi.

Occorre che a questa consapevolezza si accompagni un’altra cosa: vedere (e rivedere) le carceri per rendersene conto, come diceva Calamandrei. È, forse, questo un passaggio utile a “maneggiare con cura” le sentenze di condanna, i benefici penitenziari e, prima ancora, la carcerazione preventiva. Le carceri sono fatiscenti e piene fino all’inverosimile, gli agenti della polizia penitenziaria finiscono per essere reclusi con i reclusi. Occorre che a questa consapevolezza si accompagni un’altra cosa: vedere (e rivedere) le carceri per rendersene conto, come diceva Calamandrei

*Associato di Procedura penale nell’Università di Salerno