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di Maria Lucia Panucci

ilmondo-rivista.it, 20 febbraio 2024

Per rispondere alle annose criticità del sistema penitenziario italiano “è necessario investire sul territorio e sul personale sanitario”. Ne abbiamo parlato con uno dei fondatori dell’Associazione Antigone, Stefano Anastasìa. Strutture fatiscenti e sovraffollate, carenze di personale sanitario e suicidi in carcere: queste sono solo alcune delle criticità in cui versano gli istituti penitenziari italiani. 190 in tutto. Sembra un numero consistente ma di fatto non lo è considerando l’aumento costante nelle celle.

Secondo un comunicato del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, l’indice attuale dell’affollamento è del 127,54%: 60.328 persone detenute, 13.000 in più rispetto ai 47.300 posti disponibili, con punte del 232,10% nella Casa circondariale di San Vittore a Milano, del 204,95% nella Casa circondariale di Canton Mombello a Brescia, del 204,44% in quella di Lodi, 195,36% in quella di Foggia. La tendenza al sovraffollamento senza battute d’arresto è un fenomeno in atto da un anno, con una progressione preoccupante rispetto agli anni precedenti: se alla fine del 2022 la popolazione detenuta era aumentata di circa 2.000 unità rispetto a dicembre del 2021, l’aumento registrato al 30 dicembre 2023 è esattamente del doppio, con circa 4.000 persone detenute in più.

E a destare preoccupazione è anche lo stato fatiscente di molti edifici. Secondo il report dell’Associazione Antigone, che traccia un bilancio sullo stato dei penitenziari italiani nel 2023, alla luce di un’indagine condotta nei 76 complessi detentivi dove sono state effettuate negli ultimi 12 mesi oltre 100 visite, il 31,4% delle carceri è stato costruito prima del 1950, molte anche prima del 1900. Nel 10,5% le celle non erano riscaldate, nel 60,5% mancava l’acqua calda. E in 25 istituti, il 33%, c’erano celle in cui non erano garantiti tre metri quadri calpestabili per ogni persona detenuta. Andando avanti di questo passo, tra 12 mesi l’Italia sarà nuovamente ai livelli di sovraffollamento che causarono la condanna da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per violazione dell’articolo 3 della Convenzione EDU che considera quattro metri quadri come spazio abitativo minimo accettabile.

“Ci sono istituti che in parte per carenza di personale, in parte per una difficoltà a livello territoriale e quindi del mondo esterno, in parte anche per la struttura degli ambienti penitenziari stessi, non svolgono attività formative, educative o di avviamento ad un lavoro esterno per il detenuto una volta fuori dal carcere. Su tutto si abbatte, è proprio il caso di dirlo, la questione del sovraffollamento - ci ha spiegato il Garante delle persone detenute della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, tra i fondatori dell’Associazione Antigone nel 1991.

Abbiamo avuto alcune occasioni in cui per fortuna il sovraffollamento è stato contenuto, l’ultima quella della pandemia. Si è cercato di evitare situazioni di assembramento per salvaguardare la salute pubblica. Oppure 10 anni fa quando l’Italia è stata condannata dalla Corte europea per il sovraffollamento. Anche in quel caso ci fu una attenzione particolare ed il numero delle persone in carcere fu contenuto. Ma a parte questi casi eccezionali la tendenza purtroppo è sempre quella di eccedere, problema speculare alla carenza e alla scarsa applicazione di servizi ed opportunità di inserimento sul territorio con la conseguenza che la marginalità finisce sempre in carcere”.

Una condizione che si rivela di fatto un aggravio di pena. Ma per il Garante regionale la questione è chiara. “Abbiamo 60 mila detenuti in carcere, altri 60 mila che sono in esecuzione penale esterna, senza contare chi è in messa alla prova e ha il procedimento penale sospeso. È un cambiamento enorme rispetto a 20/30 anni fa quando in alternativa alla detenzione c’erano tre/quattro mila persone. Il problema è che a queste misure riescono ad accedere persone che hanno una rete di sostegno alle spalle importante. Hanno per esempio la casa e quindi possono andare in detenzione domiciliare, hanno un lavoro e dei familiari che se ne fanno carico. Il carcere invece, viceversa, è sempre di più l’ospizio dei poveri. È una struttura ormai destinata ad ospitare persone che sono ai margini della società, che hanno commesso reati minori ma che hanno difficoltà ad accedere alla misura alternativa e che rappresentano un elemento di disturbo per gli altri. Restano in carcere fino all’ultimo giorno della loro pena perché non si sa dove mandarli in alternativa alla detenzione. È come se ci fosse un bivio: chi prende la strada del carcere poi fa fatica ad uscirne, mentre invece chi riesce sin dall’inizio della sua pena ad accedere alle alternative può scontare la pena fuori dal carcere in condizioni sicuramente più dignitose, meno invalidanti. La magistratura non riconosce l’alternativa alla detenzione a chi non abbia un discreto grado di integrazione nel tessuto sociale. Questo è un dramma che dura da decenni, uno dei problemi principali del nostro sistema penitenziario”.

Insomma in Italia ci sono diverse opzioni alternative al carcere, solo che sono scarsamente applicate. Ma chi sono quelli che “restano dentro”? “Ci sono molti stranieri, extra o comunitari, come i rumeni che frequentemente sono inseriti in mercati di lavoro illegali e criminali. Hanno meno strumenti per difendersi in giudizio perché spesso non comprendono neanche la lingua - sottolinea il Garante - e hanno meno risorse per poter accedere a delle alternative, quindi finiscono più facilmente in carcere. Ma per reati minori si intende, perché quelli gravi li fanno gli italiani. Il Governo ribadisce la necessità che gli immigrati possano scontare la loro pena a casa loro. Sicuramente questo aiuterebbe a ridurre il sovraffollamento, il problema è che i Paesi d’origine non hanno interesse a collaborare con l’autorità giudiziaria italiana alle operazioni di rimpatrio”.

Se dovesse diventare effettivo il nuovo reato di rivolta introdotto dal Pacchetto Sicurezza, poi, le condizioni dei detenuti nelle carceri potrebbero anche peggiorare. Secondo il disegno di legge il reato è punito con pene fino a 8 anni per chi organizza e fino a 5 anni per chi partecipa a rivolte, aumentati a 10 anni se si usano armi. Un’ulteriore fattispecie punisce chi istiga la rivolta, anche dall’esterno. Una norma che diversi giuristi hanno già criticato e che anche il Garante contesta. “Le rivolte si sono sempre punite con gli strumenti del codice già previsti: danneggiamenti, lesioni, saccheggio, evasione e altri - spiega. - Tutte le proteste violente che sono avvenute in carcere quando per esempio è scoppiata la pandemia sono state perseguite dall’autorità giudiziaria. Non c’è bisogno di un intervento ad hoc e soprattutto non c’è bisogno di un reato di rivolta che mira a punire anche le azioni di protesta non violente”.

La norma dice infatti questo: “chiunque, all’interno di un istituto penitenziario, mediante atti di violenza o minaccia, di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti ovvero mediante tentativi di evasione, commessi da tre o più persone riunite, promuove, organizza, dirige una rivolta è punito con la reclusione da due a otto anni”. In sostanza nella fattispecie della rivolta viene inclusa anche l’ipotesi di disobbedire a un ordine.

“A me sembra una follia - rimarca Anastasìa. - Ad esempio sarebbero passibili di rivolta anche i detenuti che si rifiutassero pacificamente di rientrare dall’aria, magari solo per poter incontrare il direttore e rappresentargli l’assenza di acqua calda nelle stanze o il malfunzionamento dell’impianto di riscaldamento. L’espressione non violenta della propria insoddisfazione non può essere elemento di punibilità. Spero che la norma venga cambiata prima che diventi legge. Se il Governo alimenta una conflittualità con i detenuti sarà sempre più difficile governare le carceri. Questo non serve a nessuno”.

Insomma le criticità del nostro sistema penitenziario italiano sono tante e per il Garante la soluzione non è costruire più carceri quanto offrire maggiori servizi di sostegno e presa in carico sociale sul territorio. “Penso per esempio a chi soffre di tossicodipendenza, salute mentale. Molte strutture sono in difficoltà, non hanno personale, risorse, e di conseguenza non sanno più come intervenire ed aiutare adeguatamente. Tanti detenuti che sono rinchiusi avrebbero più bisogno di un supporto fuori che di stare in carcere. Basta una resistenza ad un pubblico ufficiale per prendere una persona per strada e portarla dentro. I criminali pericolosi, o quelli in grado di fuggire, alterare le prove o reiterare il reato o quelli legati alla criminalità organizzata, saranno quanti? Trentamila persone? Ma le altre 30 mila stanno in carcere perché non sappiamo dove metterle fuori. Dobbiamo scegliere di investire sul territorio non nelle carceri”.

Investire sul territorio vuol dire investire anche sul capitale umano, ovvero il personale dell’Amministrazione Penitenziaria e quello sanitario.

I medici e gli infermieri che curano i detenuti sono pochi, anche se la carenza è di carattere generale, sottolineano a gran voce sia il Direttore UOC Medicina Protetta dell’Ospedale Sandro Pertini di Roma, Samuela Beccaria, sia il responsabile nazionale di Medicina Penitenziaria del sindacato Sumai Assoprof, nonché Direttore sanitario della UOC Salute Penitenziaria di Rebibbia, Antonio Chiacchio. “I medici sono carenti dappertutto, non solo negli istituti penitenziari, anche sul territorio, negli ospedali e nei pronto soccorso.

C’è quindi un problema di carattere generale”. Ma oltre alla carenza un altro grande problema è la provvisorietà. “Manca qualsiasi tipo di attrattiva, riconoscimento e valorizzazione del lavoro in ambito penitenziario. È un’area marginale da tanti punti di vista ed i medici non hanno nessun tipo di incentivo ad operare in questo tipo di contesto. Molti la considerano un’attività temporanea, transitoria in attesa di trovare una sistemazione migliore.

E questo per svariate ragioni. Innanzitutto quello penitenziario è un contesto molto particolare in cui lavorare, difficile e faticoso sia a livello umano sia professionale. I detenuti non sono pazienti semplici da gestire e proprio perché si tratta di un contesto che vive di una carenza cronica di personale c’è un indubbio sovraccarico lavorativo. Oltre ai problemi di carattere più clinico il personale sanitario si deve fare carico di incombenze burocratiche-amministrative e di coordinamento con il contesto penitenziario”, spiega Beccaria.

Stanno un anno, due anni e poi se ne vanno. Non c’è neanche il tempo di formarli adeguatamente a fare questo tipo di lavoro. Ma una preparazione specifica è fondamentale. “Non puoi prendere un medico preparato per il mondo esterno e metterlo nelle carceri ad affrontare tutta una serie di problematiche che sono tipiche di questi contesti: patologie gravi, tossicodipendenze, disturbi psichiatrici. Questi medici non hanno solo compiti inerenti all’assistenza e alla cura ma devono fare le relazioni per i magistrati e risolvere tutta una serie di incombenze delicate e rischiose che vanno comunque assolte. È indubbio che si tratta di un contesto ben più complesso di quello esterno che necessita di una preparazione adeguata”, sottolinea Chiacchio secondo cui va formata anche la polizia penitenziaria perché sta a contatto con il detenuto molto più tempo del personale sanitario e deve essere quindi capace di gestire il rischio suicidio, altro tallone d’Achille del sistema.

Eh sì, perché nelle carceri italiane i detenuti si tolgono la vita con una frequenza 19 volte maggiore rispetto alle persone libere e, spesso, lo fanno negli istituti dove le condizioni di vita sono peggiori, quindi in strutture particolarmente fatiscenti, con poche attività trattamentali, con una scarsa presenza del volontariato.

È quanto rivela il Centro Studi di Ristretti Orizzonti secondo cui al 17 gennaio 2024 già 7 persone si sono tolte la vita in carcere dopo le 69 del 2023. “Ci sono persone che non sopportano di stare in carcere e che addirittura si tolgono la vita pochi giorni prima di tornare in libertà. Non sanno dove andare una volta usciti. Chi non è ben strutturato, non ha cioè una famiglia, una casa, una rete sociale solida vive un disagio psichico non da poco. Non bastano gli psicologi e gli psichiatri per ridurre il tasso di suicidi in carcere, serve che queste persone siano coinvolte in un percorso educativo di reinserimento nel lavoro e nella società che li aiuti a non sentirsi soli, emarginati, che dia loro la prospettiva di una vita futura”, spiega ancora il dirigente di Rebibbia.

Sia per Beccaria sia per Chiacchio andrebbe riconosciuto al personale sanitario una qualche forma di indennità economica per la peculiarità del contesto, mentre di fatto vengono remunerati esattamente come se lavorassero al di fuori dove hanno meno responsabilità. Forse molte problematiche si risolveranno quando sarà effettivo il controllo da parte delle Regioni. “Prima la sanità penitenziaria era gestita dal Ministero della Giustizia, oggi non è più così perché per fortuna con una legge dello Stato la sanità è passata, come era giusto che fosse, sotto il controllo del Sistema sanitario regionale - dice Chiacchio.

Ciò ha comportato un riordino degli istituti penitenziari ma siamo ancora in una fase di costruzione di questo sistema tant’è vero che solo da un anno nel contratto collettivo nazionale di medicina generale è stata individuata una specifica area, quella dedicata alla medicina penitenziaria. L’obiettivo è quello di avere dei medici penitenziari tutelati e che siano a tempo indeterminato. Con il nuovo contratto di medicina generale questo sarà possibile e ci saranno figure specifiche che lavoreranno solo negli istituti penitenziari”.

Il Garante Anastasìa opera a livello istituzionale, Beccaria in ambito ospedaliero e Chiacchio sul territorio ma la visione è la stessa: tutti e tre convergono nel dire che bisogna investire sul territorio e negli ospedale per risanare gli istituti penitenziari italiani quantificando innanzitutto l’organico necessario in base al numero di detenuti presenti, incentivando poi questo tipo di attività attraverso una particolare indennità economica, puntando sulla formazione specifica del personale sanitario e facendo gioco di squadra tra le diverse amministrazioni (medica, penitenziaria e giudiziaria) per trovare la sintesi che rispetti tutti a tutela del detenuto-paziente.