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di Massimo Donini

Il Riformista, 17 marzo 2022

Inviare armi all’Ucraina in guerra contro l’aggressore russo è una forma di soccorso difensivo. Se si prendono a prestito le categorie del diritto che regolano i rapporti tra individui e le si estendono agli Stati, si sta applicando una forma di legittima difesa a favore di un terzo aggredito. È un’azione libera l’aiuto al terzo, non è vincolata, e suppone che l’aggressione sia “ingiusta”, e dunque che sia ingiusta la guerra scatenata dalla Russia. Certo si potrebbero inviare armi a un Paese belligerante o attivare altre forme di aiuto militare senza discutere sulla giustizia o meno delle condotte, ma semplicemente per un interesse nazionale o internazionale (ai privati sarebbe vietato farlo secondo la l. n. 185/1990). Il soccorso difensivo non è pensato per sacrificare ogni interesse del difensore.

Per la cultura occidentale, e anzi internazionale, la logica dominante, almeno dal Seicento, nei rapporti fra Stati, fino al processo di Norimberga (1945-46) e alla dichiarazione universale dei diritti umani del 10 dicembre 1948, era un’altra. Dalla pace di Westfalia (1648), la guerra “tra Stati” era ritenuta un normale strumento di soluzione di conflitti internazionali, l’aggressione bellica non costituiva un crimine (ma resterà il più impunito dei crimini anche fino a oggi), e se i crimini di guerra ricevettero definizioni in convenzioni internazionali già dai primi del Novecento, quelli contro l’umanità, insieme al genocidio (due crimini distinti), non avevano una disciplina. Li si cominciò a definire solo al processo di Norimberga. La storia della nascita di queste ultime due fattispecie, attraverso varie biografie di deportazioni, genocidi e tragedie collettive, grazie all’impegno dei due giuristi ebrei polacchi, poi emigrati negli Usa, che le coniarono, Hersch Lauterpacht e Raphael Lemkin, è narrata, proprio partendo dalla città di Leopoli, crocevia di culture, nazioni e politiche europee, e dalle vicissitudini dell’Ucraina, nel libro del giurista inglese Philippe Sands, La strada verso est, Guanda, 2017 (orig. East West Street, 2016). Tra i genocidi descritti o anche solo ricordati e che sono alla base della definizione normativa, c’è quello degli Armeni. Discutendo di questo evento accaduto al tempo della prima guerra mondiale, si ricorda una “dottrina giuridico-politica” allora vigente: “all’epoca, il diritto internazionale consentiva ai singoli stati di fare ciò che volevano. Sorprendentemente, non c’era alcun trattato che impedisse alla Turchia di agire come aveva agito, che le proibisse di uccidere i suoi stessi cittadini. La sovranità era sovranità: totale e assoluta”.

Attualmente lo strumento giuridico-punitivo (accanto a vari altri ben più efficaci) per responsabilizzare gli Stati o i governi o i militari al rispetto dei diritti umani suppone che si creino Corti penali alle quali gli Stati stessi si sottomettano in virtù di un trattato ratificato prima della commissione dei fatti nei loro territori, o da parte di loro gruppi o soggetti nazionali. Oppure si prevede la creazione di Tribunali ad hoc, costituiti da qualche “vincitore” a conflitto concluso, e che applicheranno un diritto generalmente riconosciuto in ambito internazionale, consuetudinario, e localmente vigente, anche se ignorato al tempo dei fatti da qualche singolo Stato o gruppo. Oggi anche singoli Stati esercitano simbolicamente una giurisdizione universale contro ogni possibile dittatore e criminale internazionale.

La criminalizzazione del nemico è storia recente, perché la legge della guerra, dopo la fine delle guerre di religione, cioè dopo Westfalia, è stata tradizionalmente un’altra. Il nemico non era un delinquente, non era immorale: era hostis pubblico, privo di connotazioni eticizzanti o di discipline della concorrenza tra privati. La legge o la consuetudine internazionale disciplinavano solo l’appartenenza legittima a Stati sovrani riconosciuti i quali, in quanto tali, avevano il diritto di guerra.

Forse nessuno l’ha illustrata così bene come Carl Schmitt nel suo libro più bello scritto dopo la coinvolgente esperienza del nazismo: Il Nomos della terra (1950). Sennonché, questo era il tempo dell’età degli imperi, che le Carte dei diritti dopo la seconda guerra mondiale volevano cancellare. La guerra come strumento di soluzione dei conflitti internazionali, ciò che la Costituzione italiana del 1948 ripudia all’art. 11, è dunque la situazione pre-costituzionale alla quale ci vorrebbe riportare la politica della Russia, che è retrocessa, o forse rimasta, a quello stadio. Uno Stato oggi privo di una ideologia corrispondente a quella sovietica ed espressione di una pura logica della forza non potrebbe avere nessun appeal neppure al proprio interno. Nuove metafisiche antioccidentali come l’idea dell’Eurasia del filosofo Alexandr Dugin (Eurasian Mission, 2014; The Fourth Political Mission, 2012) sembrano riecheggiare in Putin (progetto identitario russo), e del resto hanno corrispondenti descrizioni critiche occidentali dell’”Impero” finanziario delocalizzato dopo la fine dei vecchi blocchi (realtà antitetica avversata: cfr. Hardt e Negri, Empire, 2000). Ma gli stermini parlano una lingua diversa da quella delle idee. La pena di morte, il cui divieto o abbandono è un requisito per entrare nel Consiglio d’Europa e dal quale la Russia significativamente si è ora autosospesa, è un altro aspetto di quel mondo, il “mondo di ieri”, che invece ritorna. E con esso, il terzo aspetto che è quello della guerra come normalità politica. Era mai davvero scomparso quel mondo? Il difensore militare storico dell’Occidente, gli Stati Uniti, ha sempre mantenuto di quel passato i tratti ora ricordati: la guerra come strumento di soluzione dei conflitti internazionali e dimensione quotidiana della presenza internazionale, oltre alla pena di morte.

Non vorremmo, in una escalation collettiva, ritrovarci tra qualche tempo a rimettere anche “culturalmente” in discussione (e non solo di fatto) tutti e tre gli aspetti finora relegati idealmente nel passato pre-costituzionale e ante guerra fredda. Il conflitto in corso in Ucraina ci immerge in ciò che non volevamo vedere: i civili morti quale prezzo inevitabile dei bombardamenti, come in Siria, in Iraq e in Afghanistan; e la necessità di stare da qualche parte, attivi o passivi, collaboranti o resistenti. E in questa situazione lacerante ricompare la nostra nuova cultura che penalizza ogni illecito. Dobbiamo criminalizzare la guerra o solo chi abbia commesso singoli crimini di guerra o contro l’umanità? Tanto è forte oggi l’etichettamento penalistico per i crimini di guerra che lo stesso Presidente russo ha richiamato tra le pseudo-giustificazioni dell’intervento l’esigenza di sottoporre a giudizio penale gli autori del ritenuto “genocidio” in Donbass. Ecco allora che questa cultura dei diritti, ma anche dei delitti e delle pene, continua a coinvolgere nella propaganda internazionale anche chi se ne sta distaccando e forse non l’ha mai condivisa. Certo, tocchiamo con mano che Usa, Russia e Cina non hanno mai ratificato lo Statuto di Roma e dunque non sono sottoponibili nei loro rappresentanti alla giurisdizione della Corte penale internazionale, salvo ipotesi di nuovi tribunali ad hoc. Tuttavia, chi (anche non sottoscrittore) commette crimini di guerra nel territorio ucraino resta soggetto alla giurisdizione della CPI ai sensi dell’art. 12 dello Statuto di Roma, dato che l’Ucraina ha accettato comunque la giurisdizione della CPI. Invece, non risponderà del crimine di aggressione, che suppone una ratifica di entrambe le parti (Ucraina e Russia), la quale manca, ma dei crimini commessi su quel territorio potrà comunque rispondere.

I giudizi penali a posteriori hanno però un’evidente debolezza preventiva rispetto a Stati che ormai non si considerano occidentali. Molto più importante è che queste minacciose normative accompagnino e veicolino una cultura e una prassi, e non l’illusione di aver cancellato per sempre le guerre. Ci chiediamo invece se siamo mai davvero usciti dall’età degli imperi. Abbiamo conservato e anzi incrementato di contenuti ideali e normativi la purezza dei diritti, lasciando spesso che altri li violassero, in Cecenia, in Ucraina, in Georgia, nella ex Iugoslavia, come in Medio Oriente e oltre, e solo adesso che bussa alla porta una guerra più estesa, ma a noi più vicina, e di cui nessuno ancora ha compreso con certezza gli obiettivi, ci rendiamo conto di quante sono le questioni cruciali che abbiamo preferito ignorare. E magari rispolveriamo un mazzinianesimo europeo. Ma noi siamo andati ben oltre nel 1948. La nostra azione difensiva, anche contro chi sta progressivamente ripudiando trattati e impegni internazionali, resta una forma di difesa collettiva, non di aggressione bellica finché non subisce una tragica escalation, ed è coerente a un modello di civiltà, proseguendo un cammino che ha rappresentato una delle novità più rivoluzionarie della storia: la sottoposizione degli Stati non semplicemente alla legge, ma ai diritti. Una vicenda assai recente di fronte ai millenni del passato. La vera battaglia politico-culturale si sta giocando su questo terreno, e non ci possono essere cedimenti su questo fronte. Il ius si impone alla lex e alla forza. Gli Stati vanno sottomessi ai diritti. Sono diritti non solo individuali, ma della popolazione, di una moltitudine che “non ha un padrone” e non ha bisogno di identificarsi in una nazionalità, cittadinanza o etnia per vantare quei diritti.

A questo punto occorre che nei confronti di tutti, alleati e non, si ribadisca il divieto di regresso verso il ius belli. Il diritto di guerra è solo rigorosamente difensivo, ed è sottoposto a una disciplina giuridica che vincola gli Stati a favore degli individui. Questo era il modello della “pace perpetua” di Kant, un obiettivo di giurisdizione universale, non il modello Westfalia che lasciava agli Stati il dominio e il potere di costruire imperi e con ciò una sovranità assoluta sulle persone. La Russia di Putin sta chiaramente regredendo all’età degli imperi e alla guerra di aggressione, dove gli individui sono una quantité négligeable.

Come lo sono per il suo Presidente quegli stessi ucraini che pubblicamente dichiara di ritenere russi. Qui la battaglia è identitaria, perché si può essere più pacifisti o belligeranti, ma su questi princìpi non ci sono possibilità di trattative. Da ora in poi sarà più difficile pensare di affiancare a una pace perpetua circoscritta a un continente tante guerre dislocate altrove, lontano dagli occhi.

La valutazione del passato dovrà rinunciare alle tentazioni antistoriche della criminalizzazione retrospettiva, magari fino ad Alessandro Magno, ma da Norimberga e Tokyo in avanti solo l’esistenza di Tribunali attivi ha potuto assicurare che i diritti siano ius, anziché materia prima degli scambi internazionali. Con una cautela, peraltro. Le Corti di giustizia, quando operano a conflitti ancora in corso, diventano armi da guerra, come accade anche ai tribunali ordinari. Dovremo perciò tenere separata la giurisdizione dalle armi, usando solo le armi legittime, non giurisdizionali ma di policy e di police, per sconfiggere quella pura forza che vorrebbe travolgere leggi e diritti, e riservando la criminalizzazione anticipata del nemico o dell’aggressore a un discorso politico che si estenda a tutti i conflitti internazionali analoghi.