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di Giovanni Bianconi

Corriere della Sera, 28 novembre 2023

L’allarme del Garante dei detenuti. A fine mandato Mauro Palma, 75 anni, Garante nazionale delle persone private della libertà dal febbraio 2016. Sta per lasciare l’incarico dopo quasi 8 anni. Seduto alla scrivania che sta per lasciare dopo quasi otto anni di mandato, il Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma guarda il computer e legge: “Stamattina siamo a

59-954 detenuti, a fronte di 47-546 posti disponibili. Ormai il sovraffollamento è tornato ai livelli allarmanti del periodo pre-pandemia. Ma c’è un altro dato numerico che mi preoccupa”.

Quale?

“Il ritmo di crescita. Un mese fa i detenuti erano 59.508, il 4 settembre 58.491: in meno di tre mesi sono aumentati di quasi 1.500. Con queste cifre si raggiungeranno presto livelli di sovraffollamento difficilmente sostenibili”.

Lei, matematico di formazione, dà molto peso ai numeri. Ma se i detenuti aumentano, non sarebbe sufficiente costruire nuove prigioni e rendere disponibili i quasi 4.000 posti che oggi non lo sono?

“No, perché dietro ai numeri si nascondono questioni che hanno a che fare con la funzione del carcere e i diritti dei reclusi. Dei quasi 60.000 di oggi, 1.486 hanno una condanna inferiore a un anno, e 2.926 inferiore a due anni. Per loro il carcere non può fare niente, perché in un periodo così breve nessun percorso educativo o di socializzazione è possibile. Sono vite a perdere, mentre la pena rieducativa prevista dalla Costituzione è un diritto dei detenuti. In questi casi negato”.

Ma rimetterli fuori non è un rischio per il diritto alla sicurezza degli altri cittadini?

“Io non dico di rimetterli fuori, dico che è inutile tenerli in carcere. E pure rischioso, perché entro breve tempo torneranno comunque liberi per fine pena e in questa situazione è quasi certo che ricominceranno a commettere reati, visto che sono per lo più persone senza fissa dimora e prive di qualunque sostegno. Penso che sarebbe meglio prevedere per loro strutture diverse dal carcere”.

Il ministro della Giustizia ha proposto l’utilizzo delle caserme. Lei è d’accordo?

“Non credo che le caserme siano le strutture migliori, soprattutto per dimensioni e logica architettonica. Tuttavia è da coltivare l’idea di sfruttare luoghi di proprietà dello Stato per dare risposte diverse dal carcere a reati di scarso allarme sociale. Strutture piccole, legate al territorio, dove il tempo di privazione della libertà non sia un semplice spazio vuoto che finisce inevitabilmente per aumentare l’aggressività”.

È recentissimo il caso dei due detenuti che hanno ridotto in fin di vita un terzo, Alberto Scagni. Da che cosa dipendono le tensioni interne al carcere, che sfociano in aggressioni, rivolte e suicidi?

“Il carcere è uno specchio deformante della società, che ne riflette e ingigantisce alcune caratteristiche. Le tensioni che si registrano all’interno degli istituti ripropongono quelle esterne frutto di emarginazione, povertà, speranze negate. La percentuale dei suicidi, molto più alta dentro che fuori, è la conseguenza di situazioni comuni che all’interno di una cella diventano ancor più deflagranti. Quanto al “caso Scagni”, lo considero un episodio molto grave, con diversi aspetti ancora da chiarire, nel quale uno dei due aggressori era già stato protagonista di episodi analoghi”.

Il governo ha appena varato un nuovo “pacchetto sicurezza” che aumenta reati e pene, comprese quelle da scontare per le donne in gravidanza o con bambini piccoli. Che ne pensa?

“Penso che siano norme-bandiera che non aumenteranno la sicurezza dei cittadini, dal valore più simbolico che pratico. Ancora una volta si dà una risposta penale a problemi sociali, com’è avvenuto per i genitori che non mandano i figli a scuola, ma è difficile immaginare di finire in galera per un blocco stradale o per aver imbrattato un monumento. Piuttosto mi preoccupano le nuove ipotesi di reato studiate per i detenuti, come la partecipazione a una protesta che sfocia in rivolta senza che ne siano ben definiti i contorni, perché si rischia di alimentare il circolo vizioso della reclusione che crea reclusione. Così come mi preoccupa la situazione nei Centri di rimpatrio per i migranti”.

Che cosa non va nei Cpr?

“In un anno siamo già a 4 Decreti sulla stessa materia, e dopo che era già avvenuto quando al Viminale c’erano Roberto Maroni e Matteo Salvini, per la terza volta s’è riportato il periodo massimo di permanenza a 18 mesi. Senza che questo abbia determinato un aumento dei rimpatri, che restano pochi. L’unico risultato è allungare una privazione della libertà dove l’unico controllo è quello del Garante perché non c’è la vigilanza di un giudice. Tutto ciò non fa che aumentare il rischio di nuovi reati: dentro i Cpr e fuori, quando i non rimpatriati torneranno in circolazione”.

Come giudica l’accordo con l’Albania per trasferire lì una quota di migranti raccolti da navi italiane, in attesa che si definisca la loro posizione?

“Aspettiamo di vedere i dettagli di un accordo dagli aspetti tecnici difficilmente risolvibili, che avrà costi altissimi per l’Italia; basti pensare all’applicazione della nostra giurisdizione in terra straniera e al conseguente viavai di giudici, avvocati, esperti, poliziotti. Mi pare la previsione di uno sforzo enorme con l’unico scopo di tenere lontano dalla vista degli italiani poche migliaia di migranti che in buona parte, prima o dopo, dovranno tornare in Italia”.

Che consigli si sente di dare al Garante che sta per subentrarle?

“Data per scontata l’indipendenza, dal potere politico come dalle associazioni che operano nel settore, spero che mantenga l’ampiezza del mandato, non confinato alle prigioni ma esteso a tutti i luoghi di privazione della libertà, e il mantenimento di un ruolo di elaborazione culturale, oltre che di controllo. Soprattutto in un contesto in cui esponenti politici usano con disinvoltura espressioni come “marcire in galera” o un sottosegretario si vanta di visitare un istituto non per incontrare i detenuti ma solo gli agenti penitenziari”.

Che pure hanno i loro diritti, e sono costantemente sotto organico…

“Certo, e svolgono un lavoro importantissimo. Ma il potere politico dev’essere il primo garante della potestà pubblica di privazione della libertà, ed è difficile svolgere questo compito senza incontrare le persone recluse”.