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di Claudio Bottan

vocididentro.it, 24 marzo 2024

Il 31 gennaio 2024 le persone detenute presenti nelle carceri italiane hanno toccato quota 60.814, ma il dato non tiene conto di coloro che hanno usufruito di un permesso premio e che, perciò, non rientrano nella statistica. La capienza regolamentare degli istituti di pena prevede un massimo di 51.179 ospiti, ma quella effettiva è di 47.540 posti. Le carceri italiane, dunque, tornano a esplodere. La tendenza al sovraffollamento senza battute d’arresto è un fenomeno in atto da un anno, con una progressione preoccupante rispetto agli anni precedenti: se alla fine del 2022 la popolazione detenuta era aumentata di circa 2000 unità rispetto a dicembre del 2021, l’aumento registrato al 31 dicembre 2023 è esattamente del doppio, con circa 4000 persone detenute in più. Andando avanti di questo passo, tra 12 mesi l’Italia sarà nuovamente ai livelli di sovraffollamento che costarono la condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo per violazione dell’articolo 3 della Convenzione Edu.

“Interessa a qualcuno tra Meloni e il ministro della Giustizia Carlo Nordio?” si è chiesta la presidente di Nessuno Tocchi Caino, Rita Bernardini, che dal 22 gennaio è in sciopero della fame. La situazione impone un provvedimento di clemenza non tanto per i detenuti ma per lo Stato che è fuori dai parametri costituzionali. È bastato annunciarlo perché altri cittadini decidessero di unirsi nel cammino di questa iniziativa nonviolenta, convinti che uno Stato che voglia definirsi “democratico” e “di diritto” non possa permettersi la catastrofica situazione attuale. In concreto, e nell’immediato, i promotori dell’iniziativa richiedono l’approvazione della proposta di Legge del deputato Roberto Giachetti: liberazione anticipata speciale di 75 giorni a semestre come ristoro per le condizioni vissute dalle persone recluse durante gli anni della pandemia, mentre quella ordinaria passa a 60 giorni a semestre anziché gli attuali 45.

Un buco nero - Mai stati così allarmanti i numeri sui morti in carcere, eppure non allarmano quasi nessuno al di fuori dei soliti addetti ai lavori. Nel carcere straripante di corpi, ogni prospettiva di umanità della pena e di rispetto dei diritti soggettivi delle persone ristrette rischia di essere utopia, per non parlare delle concrete possibilità di reinserimento sociale delle persone condannate. Il sovraffollamento è un buco nero che ingoia tutto, a partire dalle vite dei detenuti: 86 suicidi nel 2022, 69 nel 2023. E altre centinaia di persone ci hanno provato senza riuscirci e alle troppe morti “per cause da accertare” con una certa riluttanza nel disporre le autopsie. Ma per il ministro della Giustizia i suicidi in carcere sono un fenomeno fisiologico. Il carcere sovraffollato è un luogo violento, nel quali i soggetti più vulnerabili sono in costante pericolo. Crescono gli episodi di insofferenza, di autolesionismo, di aggressività dei detenuti, ed aumenta, in parallelo, il rischio di risposte altrettanto violente da parte dell’istituzione.

Certezza della pena - Forse la prigione disumana placa la sete di vendetta ma non serve a nessuno, neanche a chi grida “e che si butti via la chiave” in nome della sicurezza, perché anzi, al contrario, la società diventa così sempre più insicura. Far entrare nel carcere sovraffollato la persona condannata significa inserirla in un incubatore di odio; lasciarla in quel contesto per tutto il tempo della pena, secondo un malinteso e purtroppo dominante concetto di “certezza della pena”, vuol dire restituire alla società un recidivo quasi certo. Se questo è lo stato delle cose, occorre chiedersi cosa fare per cambiarlo. Cambiarlo oggi, nell’immediato, se vogliamo offrire risposte non simboliche e propagandistiche alle esigenze di sicurezza e senso all’unica e ragionevole funzione della pena detentiva: reinserire in società persone responsabili.

Fabbrica di recidivi - Chi scrive ha vissuto una lunga detenzione, un’esperienza devastante che consente però di affrontare il tema con cognizione di causa: il punto di vista da un “osservatorio privilegiato”, alla stregua dell’inviato di guerra. “Com’è il carcere?” mi chiedono spesso gli studenti durante gli incontri a cui partecipo da anni. Ventidue ore al giorno accatastati in spazi stretti e in condizioni igieniche precarie. Anche il pranzo e la cena si consumano in cella, le tavolate dei detenuti che mangiano insieme sono roba da film americani. Soprattutto, in cella non si fa niente. Niente. Il tempo scorre inutilmente, senza significato. Come dovrebbe sentirsi un essere umano che si trova a vivere questa condizione? Bastano pochi mesi per abbrutirsi per sempre. Intanto, così trattato, il detenuto si convince di essere più vittima che colpevole. Pensa al male che patisce lui e si ritiene in credito, non in debito, con la società. Poi, quando esce di galera, cosa fa? Ha buttato via il tempo, non ha imparato niente, si sente guardato con diffidenza - anzi, evitato - da tutti, e trovare un lavoro è quasi impossibile.

“E quindi, cosa ti ha insegnato il carcere?”. È la domanda più difficile, perché la galera mi ha insegnato solo a sopravvivere alla galera stessa. Quello che sono oggi è frutto di una personale scelta di cambiamento, che deriva da un doloroso travaglio interiore, e non certo alla miracolosa redenzione che ci si aspetta dal trattamento rieducativo del carcere. E mi porto dentro tanta rabbia per aver sprecato anni di vita oziando, con un costo pari a 150 euro al giorno che escono dalle tasche dei cittadini; avrei potuto essere una risorsa utile alla collettività, magari prendendomi cura di persone fragili. In compenso in galera ho imparato a fare un buon caffè con la cremina; so fare la colla con la pasta scotta, costruire un coltello partendo dalla bomboletta del gas, giocare a scopa e, all’occorrenza, menare le mani. Ma non credo che siano competenze che possano arricchire un curriculum.

Tutte le pene detentive hanno un termine e, quindi, alla fine è il tasso di recidiva dei reati l’elemento centrale su cui riflettere utilizzando sistemi efficaci e ragionando non su opinioni, ma solo ed esclusivamente su dati scientifici ed oggettivi, quali i dati statistici forniti dal ministero della Giustizia. Bisogna andarseli a cercare e non sempre è facile. Chi sconta una pena in regime alternativo alla detenzione ha un tasso di recidiva attorno al 19%. Chi sconta tutta la pena in carcere ha un tasso di recidiva attorno al 68,5%. Non è una differenza da poco: è circa il triplo. Se buttiamo via la chiave, le probabilità che chi ha commesso un reato lo rifaccia sono tre volte superiori. Le statistiche ci dicono che le revoche delle misure alternative alla detenzione, invece, sono veramente poche: non arrivano al 5%; ciò significa che più del 95% delle persone che scontano la loro condanna fuori dal carcere rispettano le prescrizioni. E non si tratta di mancati controlli delle forze dell’ordine, bensì al corretto comportamento della persona in regime alternativo. La misura alternativa è un impegno. I controlli ci sono, eccome. Ma il cittadino comune questi dati non li conosce perché non vengono divulgati. E la ragione non è dato saperla.

Nuove carceri - Nella politica governativa, così come nell’opinione pubblica suscita consensi la soluzione più semplice: costruire nuove carceri. Si tratta di una soluzione ingannevole: calcoli e statistiche alla mano, i nuovi istituti sarebbero pronti soltanto tra dieci anni e potrebbero assorbire una quota estremamente ridotta dell’attuale sovraffollamento. In assenza di personale educativo, di agenti della polizia Penitenziaria e direttori, accrescere il numero dei posti a disposizione significa accrescere anche il numero di coloro che andranno a occuparli: se aumentano le prigioni, prima o poi verranno riempite. Ma ci sono alcuni segnali che fanno pensare che le cose possano peggiorare. È passato sostanzialmente inosservato il nuovo reato introdotto dal pacchetto di sicurezza, inserito in un giro di vite complessivo, su borseggio, baby accattonaggio e altro. Si chiama “rivolta in carcere” e prevede che sia punito con pene fino a 8 anni chi organizza e fino a 5 anni chi partecipa a rivolte, aumentati a 10 anni se si usano armi. Un’ulteriore fattispecie punisce chi istiga la rivolta, anche dall’esterno, con scritti diretti ai detenuti. L’inasprimento della pena fino a 6 anni riguarda anche le rivolte che avvengono nei Cpr per migranti. In sostanza nella fattispecie della rivolta viene inclusa anche l’ipotesi di disobbedire a un ordine. Una norma “paradossale”, la definisce Mauro Palma, ex garante dei detenuti: “Quando, ad esempio, si va all’aria in carcere, c’è un elemento collettivo di essere più di tre persone; se c’è una protesta anche pacifica, può essere interpretata come istigazione alla rivolta, termine peraltro giuridicamente non definito. L’espressione non violenta della propria insoddisfazione non può essere elemento di punibilità”.

Il crimine di rivolta carceraria, così come delineato all’interno del pacchetto sicurezza, sarà quindi una minacciosa arma sempre carica puntata contro tutta la popolazione detenuta. Ci sarà chi continuerà, per questa via, a caricarsi di nuovi reati e a perdere la prospettiva dell’uscita, e la gestione di queste persone diventerà sempre più difficile. È possibile immaginare che la conseguenza sia una spirale, un circolo vizioso, che ti porta in carcere per un reato minore e un periodo di tempo circoscritto e finisce per allungarti a dismisura la pena, “creando” un comportamento criminale laddove c’è solo l’inevitabile insofferenza a una condizione carceraria. Pertanto, abbonderanno i “detenuti in attesa di reato”.

Tortura non gradita - Il Consiglio d’Europa - preoccupato dal fatto che una serie di proposte di legge presentate alle Camere da parlamentari dei partiti della maggioranza puntano a smantellare il reato di tortura - ha di recente invitato “caldamente” il governo a “garantire che qualsiasi eventuale modifica al reato di tortura sia conforme ai requisiti della Convenzione europea dei diritti umani e alla giurisprudenza della Cedu”. Le modifiche, in senso restrittivo, sono all’ordine del giorno e gli agenti si aspettano che vengano rispettate le promesse elettorali. Il testo attuale costituirebbe un rischio eccessivo per l’operato delle Forze dell’ordine, ossia quello di usare violenze o minacce o agire con crudeltà per causare “acute sofferenze fisiche” a persone private della libertà o affidate necessariamente alla custodia e al controllo dello Stato.

Celle chiuse - Chi conosce il carcere sa che il sistema penitenziario è organizzato in circuiti differenziati, regolati non da leggi dello Stato ma da circolari del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Ci sono i tre circuiti dell’Alta sicurezza, destinati alla detenzione di persone condannate o imputate per reati associativi e di terrorismo, e quelli della Media sicurezza, riservata ai cosiddetti detenuti comuni, che rappresentano la maggioranza della popolazione detenuta. È, questo, il circuito dove si riscontrano le condizioni più critiche e problematiche; si tratta delle sezioni più affollate, dove si concentrano il disagio e la sofferenza di detenuti stranieri e soggetti più emarginati. Dal 2011, e in particolare dopo la sentenza Torreggiani, era stato implementato il regime a “celle aperte”, con l’intento di superare i limiti strutturali degli spazi detentivi. Questo regime, laddove vigente, prevede la possibilità di tenere aperte le celle per otto o più ore al giorno, e consente ai detenuti di muoversi all’interno della sezione - tra i corridoi, le altre celle e la sala della socialità, se presente - in modo da aumentare il computo degli spazi utilizzabili. Non una concessione, ma un necessario intervento che consentiva di rientrare, in questo modo, negli standard minimi di spazio fisico pro capite dettati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, contribuendo così ad alleviare la sofferenza della contenzione detentiva.

Di circolare in circolare ora si è tornati al regime chiuso. La vita in istituto è organizzata in “gironi”, tra i quali si avanza e si indietreggia come in un gioco dell’oca, a seconda della dimostrazione di buona adesione alle regole della vita penitenziaria o della deviazione da queste.

I liberi sospesi -  Sono l’emblema dello sfascio della Giustizia italiana: oltre 90mila cittadini che, a seguito di una condanna definitiva con una pena da espiare inferiore a quattro anni, rimangono nel limbo. Un esercito di persone “sospese”, che attendono di sapere dal giudice di Sorveglianza se potranno usufruire di una delle misure alternative previste dalla legge o se finiranno in galera. Decisioni che, a causa della carenza di organico tra i magistrati di Sorveglianza e il personale delle cancellerie, arrivano a distanza di molti anni, talvolta anche dieci o quindici, spesso quando il soggetto interessato ha già intrapreso autonomamente un percorso di rieducazione e reinserimento sociale, vanificando così il significato costituzionale della pena.

In lista d’attesa - Torna ad affacciarsi con una certa continuità una ulteriore ipotesi di soluzione al problema del sovraffollamento: il numero chiuso nelle carceri. A dirla così sembra un’idea bizzarra, pura eresia: è concepibile che lo Stato metta un tetto massimo al numero di detenuti che può ospitare nelle patrie galere? Non si garantirebbe, in tal modo, una sorta di impunità a chi, legittimamente condannato, dovesse risultare eccedente rispetto al limite? Ad analizzare meglio i termini del problema, ci si accorge che l’idea è tutt’altro che bislacca.